di Alessandro Di Medio
“Se ci penso mi viene lo schifo, perché eravamo cento cani sopra una gatta. Una cosa così l’avevo vista solo nei porno. Eravamo troppi e sinceramente mi sono schifato un poco, però che devo fare, la carne è carne”. Questo il commento di uno dei sette ragazzi, tutti di circa vent’anni a eccezione di un minorenne, all’indomani dello stupro da loro perpetrato ai danni di una diciannovenne il 7 luglio scorso. Ennesimo, orrido caso di cronaca, tra tanti più o meno illustri dell’ultimo periodo che vedono coinvolti ragazzi di strada tanto quanto figli di personaggi pubblici.
Qualcosa si è rotto dentro i nostri ragazzi, qualcosa di importante.
“Errata percezione del consenso”, l’ha definita un giudice poche settimane prima, nel processo in cui ha assolto due diciannovenni dall’accusa di violenza sessuale nei confronti di un’amica, perché erano tutti e tre ubriachi, perché lei qualche mese prima aveva acconsentito alle loro “avanches” e poi perché i due sarebbero stati vittime di un “deficit educativo”, che li avrebbe condizionati con “un’inammissibile concezione pornografica delle loro relazioni con il genere femminile”.
Quindi non sarebbe stata colpa loro, ma della loro diseducazione.
Questo in parte è sicuramente vero: a causa degli input che bombardano costantemente i più giovani tramite gli schermi che hanno sempre tra le mani – schermi rispetto a cui noi adulti non sembriamo capaci di proporre nulla di meglio -, essi si ritrovano a essere vittime passive di un sistema che vuole ridurli a cassonetti in cui buttare continuamente dentro sporcizia. Ma questa è solo parte della verità, perché alla base del problema c’è precisamente anche l’oblio della responsabilità personale, sostituito dal predominio dell’assoluto diritto al piacere, del tutto funzionale al consumismo. Dunque, dire a una persona “non è colpa tua” significa toglierle la speranza di un cambiamento, la necessità di una rimessa in discussione, e serve solo a confermare che la pulsione informe, il desiderio di godere e di impossessarsi, di inglobare, sia una tiranna imbattibile e indiscutibile: “Che devo fare, la carne è carne”. Non è una persona, una ragazza, una storia, un nome, un volto. È carne, cibo, cosa, materia per la mia gratificazione. E neppure io che commetto l’atto sono una persona, una coscienza, uno sguardo capace di empatizzare con gli stati dell’altro, una libertà responsabile, ma sono semplicemente il fascio dei miei impulsi, il fremito della mia carne sovraesposta agli stimoli, una bocca vorace.
Atti simili, che sembrano l’esplosione improvvisa di qualcosa di impensabile, non sono altro che l’esito ultimo di una continua, quotidiana diseducazione dei sensi e degli affetti, che passa per l’erotizzazione di qualunque comunicazione e ha nella pornografia il pane quotidiano con cui un maschio, ormai a partire dall’infanzia (la visione di materiale pornografico sembra ormai iniziare attorno agli 8-10 anni di età), nutre la propria immaginazione e l’idea che ha dell’altro e di se stesso: “una cosa così”, ammette uno dei rei del recente stupro, “l’avevo vista solo nei porno.”
Prendiamo come esempio, tra i tanti, lo studio riportato dal pastore Antonio Morra in “Pornotossina”: “Agli inizi degli anni ’80, il dr. Dolf Zillmann dell’Università dell’Indiana e il dr. Jennings Bryant dell’Università dell’Alabama si domandavano se la continua esposizione ai film pornografici potesse avere qualche impatto sulle convinzioni sessuali della gente e sul loro atteggiamento verso le donne. Per il loro esperimento, selezionarono 80 ragazzi e 80 ragazze del college e li divisero in tre sottogruppi. Al primo gruppo, ‘Gruppo ad esposizione intensa’, furono mostrati 36 film pornografici non violenti per un periodo di sei settimane. Al secondo gruppo, ‘Gruppo ad esposizione intermedia’, furono mostrati 18 film pornografici e 18 film normali per un periodo di sei settimane. Al terzo gruppo, ‘Gruppo ad esposizione zero’, furono mostrati 36 film non pornografici per un periodo di sei settimane. […] Ai partecipanti fu chiesto di leggere un caso legale in cui un uomo aveva stuprato un’autostoppista e successivamente di suggerire la durata della condanna da scontare in carcere per lo stupratore. Gli uomini del Gruppo privo di esposizione stabilirono che doveva essere di 94 mesi; quelli del Gruppo ad esposizione intensa suggerirono una condanna quasi dimezzata, raccomandando appena 50 mesi. […] La pornografia essenzialmente ci desensibilizza alla violenza sessuale e alla crudeltà […]. Uno studio condotto nel 2000 ha scoperto la presenza di violenza nel 42% della pornografia online”.
In effetti, la funzione interna che regola il pudore regola anche il senso critico, e qui si spiega il perché l’erotizzazione delle comunicazioni mediatiche sia sempre più aggressiva e pervasiva: per far comprare, per far consumare. Il mondo (e gli altri) non sono altro che la grande tavola da divorare quando ne ho voglia, poco importa delle conseguenze. È del 2020 la notizia della scoperta e dell’arresto di un gruppo 25 persone (tra cui 19 minorenni) che nel darkweb pagavano in bitcoin per vedere video di bambini torturati, violentati e uccisi in diretta streaming nelle famigerate redroom. Se la brama animale prende le redini, può condurre fino allo spegnimento completo dell’umano, con la scusante del chiaroscuro tra virtuale e reale favorita da uno schermo.
Crescere a pane e pornografia ha l’effetto, sempre più evidente, di tirare su una generazione insensibile agli affetti, ma va detto che un grave contributo a questa situazione è la rinuncia, da parte delle agenzie educative, a insegnare il limite e il dominio di sé.
Una famiglia, una società e, va detto, anche una Chiesa troppo spesso arrese alla pretesa edonistica dei giovani consumatori, ai quali sembra non si sia in grado di venire incontro se non con una rassegnata tolleranza (“i ragazzi sono ragazzi”), finché non ci scappa il reato o, più ferialmente, non ci si rovina la vita in continui rapporti fallimentari e puerili.
La Chiesa deve avere il coraggio, basato sul suo inalienabile dovere di formare e guidare le coscienze, di tornare a parlare con forza del valore della castità, ovvero dell’importanza di integrare la sessualità nella personalità, quale funzione a servizio dell’amore. In altri termini, almeno la Chiesa deve tornare a fare ai giovani proposte serie, radicali, esigenti perché votate alla bellezza, alla costruzione di qualcosa di importante.
Nella mia personale esperienza di formatore di giovani, queste tematiche si sono rivelate negli anni estremamente feconde: il giovane impara che deve lottare per rendersi una persona migliore e che la custodia di sé e dell’altro non è un optional, ma l’unico modo in cui si possa amare davvero. L’alternativa è l’esito fatale di un’umanità che vedrà i suoi stessi desideri estinguersi, perché sovraccaricati di gratificazioni facili, apatica e incapace di pensare più in là dell’impulso del momento.
La castità non è castrazione, ma un grande atto di fiducia nella propria possibilità di bellezza e di umanizzazione del proprio sentire – e questo ne fa un obbligo morale connesso alla dignità personale.
E tu, caro lettore, storci il naso dinanzi a questa “parolaccia” resa tabù dall’edonismo attuale?
Allora prova a chiederti chi sta formando la tua mentalità, se l’Agnello immacolato di Dio, che ti vuole libero e ti invita a portare la tua croce per seguirLo dove Lui stesso è passato, e raggiungere così la tua vera e piena dignità, o piuttosto il grande mercato del visibile e del comprabile, che ti vuole dipendente da tutto e schiavo del tuo lato più animale e feroce.
Le tue abitudini recondite e le tue preferenze istintive risponderanno per te.