Di Ana Fron
Oggi la mia riflessione verte intorno alla normativa che definisce “clandestino” qualsiasi migrante senza documenti e quindi irregolare e a due risvolti sociali a questa conseguenti:
– il primo è la sensazione negativa indotta in parte della popolazione residente verso tali persone;
– il secondo è che quando la cittadinanza o parte di essa percepisce una legge come ingiusta, si corre necessariamente il rischio che venga disattesa.
Ma chi è un clandestino?
In Italia “la legge 10-bis del Testo unico sull’immigrazione, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, introdotto dalla legge 15 luglio 2009, n.94, disciplina il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato da parte di uno straniero non comunitario” (dal Ministero della Giustizia). Dunque, in base alla legge nazionale, una persona che non appartenga alla Comunità europea, che entra e soggiorna sul territorio italiano senza averne un permesso è comunemente tacciata di essere un fuori legge; un clandestino.
Non dobbiamo trascurare nemmeno questa volta il peso delle parole. Il vocabolo clandestino, che in accettazione giuridica implica lo stato di fuorilegge, può modificare la nostra percezione circa una categoria di individui, che in realtà non commette atti a danno di altre persone o della comunità. Semplicemente si trova sul suolo di uno stato.
E ancora, il termine “clandestino” è un potente strumento che condiziona l’opinione pubblica. Usato in modo generalizzato, porterebbe la popolazione residente ad “additare” come delinquenti tutti i migranti che entrano nel territorio italiano compresi coloro che in seguito ad una richiesta di “protezione internazionale” ottengono lo status di rifugiato; oppure coloro che hanno avuto un permesso di soggiorno, non rinnovato, per motivi di lavoro o umanitari. Ricordiamo che in Italia, con il susseguirsi dei governi, cambiano anche le leggi in materia di immigrazione.
Riconosciamo che il fenomeno migratorio non è in sé illegittimo ed è regolato da leggi internazionali e nazionali. Di più, dare protezione a chi ne necessita è un obbligo che abbiamo assunto con la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra del 1951.
Cambiando la prospettiva, chi non è convinto della “bontà” della legge, tende a non rispettarla ma soprattutto a ritenerla illegittima. Questo sentimento di illegittimità induce nei cittadini la percezione di uno stato scorretto del quale diffidare.
Mark Provera, ricercatore presso la sezione Giustizia e Affari interni del Centro per gli studi politici europeo, attraverso indicatori sulle normative comunitarie e leggi nazionali di alcuni paesi dell’Unione, messe a confronto, deduce che la legge sulla clandestinità può essere “messa in discussione” dalla popolazione se condanna una categoria di persone per il fatto che si trovi senza documenti sul suolo di un dato paese.
Dunque sia gli stigmi sociali, sia la diffidenza verso la legge possono comportare gravi ripercussioni a livello sociale. Uno stato deve esercitare il proprio potere attraverso leggi, come recita l’art. 117 della Costituzione: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni…”ma queste leggi devono essere giuste, edificanti e non arrecare danni alla comunità; le leggi devono essere chiare e non generare interpretazioni; devono essere giuste e fatte rispettare.
Mettere in condizione di “clandestinità” una persona che approda sulle coste italiane perché fuggita dalla fame, oppure rimasta senza permesso di soggiorno in quanto ha perso il lavoro non è giustizia sociale.
Riflettiamo!