COLONNELLA – Era l’8 Settembre 1943, quando fu annunciato l’armistizio tra l’Italia e le Forze Angloamericane, un atto che segnò la fine della Guerra condotta al fianco della Germania di Hitler e diede inizio ad una nuova fase storica che vide i nazisti attuare il loro piano di occupazione della penisola italiana, mentre le Formazioni Partigiane cominciavano ad organizzare la Resistenza. L’improvviso sfaldamento delle strutture di comando dell’Esercito Italiano consentì ai Tedeschi la cattura di centinaia di migliaia di militari italiani, che furono deportati e internati, assieme a tantissimi civili, nei campi di concentramento nazisti. Tra questi c’era anche Abramo Rossi, un giovane di Colonnella che all’epoca si trovava in servizio come Carabiniere a cavallo presso il I° Squadrone nella Legione Allievi Carabinieri di Roma.
Oggi Abramo ha 99 anni, è sottotenente “a titolo onorifico” dell’Arma dei Carabinieri, ha ottenuto anche la Medaglia d’Onore come Volontario della Libertà e da tempo si mette a disposizione di Scuole e Comuni per raccontare la sua storia. Una preziosa testimonianza che anche noi abbiamo voluto raccogliere e che, in occasione dell’80° anniversario dall’8 Settembre 1943, verrà trasmessa anche sul canale 35, oggi 8 settembre 2023, alle ore 21:05, durante il programma “Focus – 1943: L’anno che …“.
Come mai si trovava a Roma nel 1943?
Ero nato il 4 marzo del 1924, quindi all’epoca avevo 19 anni. Da piccolo avevo frequentato la Scuola Elementare seguito dal Maestro Acerbo, che era anche il Podestà del nostro Comune. All’epoca le bambine potevano frequentare solo fino al 3° anno; i bambini invece potevano giungere fino al 5°, poiché dovevano imparare bene a leggere e scrivere, così, in caso di guerra, avrebbero potuto scrivere le lettere dal fronte. Quando era scoppiata la Guerra, io avevo 15 anni e lavoravo insieme a mio padre e ai miei fratelli presso una delle masserie della famiglia Volpi, in condizioni di vita non agevoli: all’epoca infatti non c’erano i servizi igienici o l’elettricità come oggi e, sebbene non potessimo definirci poveri, certamente non eravamo neanche ricchi! Allora mio padre, che aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale ricevendo la Croce di Cavaliere di Vittorio Veneto e che sapeva bene che a breve sarebbe giunta la chiamata alle Armi anche per me, mi propose di arruolarmi nell’Arma dei Carabinieri. Sapendo che comunque sarei dovuto partire di lì a poco per la Guerra e sarei dovuto stare lontano da casa, avevo accettato di lasciare il mio paese e la difficile vita di mezzadro per avere una prospettiva di vita e di lavoro più dignitoso, in un contesto privo di ingiustizie. Roma del resto era una città affascinante agli occhi di un ragazzo che veniva dalla campagna, anche se eravamo sotto una dittatura e in piena guerra e le condizioni di vita erano difficili per tutti. Dopo la prima visita effettuata ad Ancona con esito positivo, ero stato mandato a Roma per la seconda visita. Essendo stato ritenuto idoneo anche questa volta, nel marzo del 1943 ero stato assegnato al I° Squadrone della Legione Allievi Carabinieri di Roma come carabiniere a cavallo. Io, che in vita mia avevo conosciuto solo i buoi, dovetti fare un corso accelerato! In pochi mesi imparai ad andare a cavallo e mi venne dato l’incarico di insegnare ai nuovi allievi a cavalcare. Mentre ero occupato in queste attività, quattro mesi dopo, precisamente il 25 luglio 1943, cadde il governo Mussolini, il quale fu arrestato e condotto da due nostri ufficiali nella nostra caserma. Ricordo ancora la paura e la tensione che avevamo noi giovani Carabinieri. Ci fu dato un mitragliere ciascuno per precauzione: se i Tedeschi ci avessero attaccato, noi avremmo dovuto rispondere. Fortunatamente per tutta la notte non successe nulla e Mussolini rimase con noi per poco tempo. Tuttavia la situazione iniziò a farsi preoccupante. Mio padre, che all’epoca aveva 43 anni ed era anche orgoglioso di avere in famiglia un Carabiniere a cavallo, venne a Roma sia per incontrarmi e sincerarsi delle miei condizioni sia per gustare il prestigioso traguardo raggiunto. Purtroppo il viaggio durò alcuni giorni e, quando arrivò, poté solo salutarmi, perché nel frattempo gli Americani erano sbarcati e stavano risalendo la penisola, quindi noi Carabinieri non avevamo più la libera uscita. Ricordo che successivamente venne a trovarmi anche mio zio Antonio, il papà di mio cugino Luciano Rossi che ancora vive a Colonnella, che era stato richiamato alle armi a Monte Coppa, un piccolo paese all’epoca in provincia di Udine. Di lì a poco la situazione sarebbe precipitata ancora di più e io non avrei rivisto i miei se non dopo 22 mesi.
Cosa avvenne l’8 settembre 1943?
Dopo la cattura di Mussolini, aveva preso il comando il maresciallo Pietro Badoglio, che anni prima era stato in visita anche a Colonnella, quando io frequentavo la Scuola Elementare. L’8 Settembre 1943, Badoglio, in qualità di Capo dello Stato, comunicò via radio al Popolo Italiano che la Guerra contro gli Angloamericani era finita. Il re Vittorio Emanuele III abbandonò il suo regno per l’esilio al Cairo d’Egitto, lasciando gli italiani in balia della furia tedesca. La forza militare italiana era senza alcun tipo di ordine dall’alto dei loro comandi. I militari delle varie armi di stanza a Roma, completamente allo sbando, lasciarono le Caserme andandosene disorientati, per cui le truppe tedesche si impadronirono della città di Roma. La nostra caserma non fu lasciata perché noi occupanti eravamo volontari di carriera e non avevamo alcuna ragione per farlo. Effettuavamo infatti attività di ordine pubblico ed aiuto alla popolazione in una capitale che si trovava in un completo stato di confusione ed incertezza. Alcuni reparti militari autogestiti, tra cui la IV Compagnia Carabinieri, affrontarono i Tedeschi a Porta San Paolo, ma vennero sopraffatti e morirono allievi ed ufficiali Carabinieri compreso il Comandante: il nostro capitano Orlando De Tommaso fu tra quelli che persero la vita nella battaglia della Magliana a Roma, ciò avvenne il 9 settembre, nel tentativo di contrastare l’occupazione dei nazisti. Io stesso vidi rientrare in Caserma il carro macchiato del sangue del nostro capitano e di altri Carabinieri. In seguito al suo sacrificio, egli fu insignito della Medaglia d’Oro al valor militare. Noi Carabinieri continuammo, grazie ad accordi tra le precarie autorità del momento ed i Tedeschi, a svolgere il lavoro di ordine pubblico, in una città in preda a saccheggi e disordini: si poteva uscire, sia in servizio sia per diporto, soltanto indossando la divisa e con la fascia al braccio con la scritta: “Roma città aperta”. Io ero Carabiniere a cavallo, aiuto-istruttore di equitazione con l’incarico, inoltre, di accudire due cavalli. Le cose andarono avanti così per circa un mese.
Cosa successe poi nell’Ottobre del 1943?
In genere, la mattina ci recavamo alle scuderie: la mattina del 7 ottobre, invece, con nostra grandissima sorpresa, ci fecero raggiungere il maneggio coperto. Qui ci venne comunicato che eravamo prigionieri delle truppe tedesche e che era impossibile tentare la fuga, poiché la Caserma era circondata da carri armati. In particolare gli ufficiali vennero bloccati con la minaccia che le loro mogli sarebbero state uccise se essi non avessero rispettato gli ordini. Gli storici solo ultimamente hanno messo in relazione la nostra cattura con la deportazione degli Ebrei di Roma che si svolse il 16 ottobre 1943: l’azione fu studiata a tavolino dal generale Graziani in accordo con i nazisti per poter effettuare agevolmente il rastrellamento dei cittadini ebrei di Roma. I Carabinieri, infatti, venivano considerati poco affidabili, anzi pericolosi per il loro crudele progetto, perché certamente avrebbero contrastato questa azione e protetto i loro concittadini.
Come avvenne la sua deportazione?
La sera del 7 ottobre io e altri circa 2500 Carabinieri fummo condotti su autocarri alla stazione Ostiense. Qui ci fecero salire su carri destinati al trasporto di bestiame, chiusi dall’esterno; ben presto il convoglio si mosse verso Nord. Il mattino seguente, il treno si fermò nei pressi di Bologna, affinché potessimo espletare i bisogni fisiologici, ma sempre guardati a vista da militari tedeschi armati. Poi il treno riprese la sua corsa e si fermò in una sperduta località austriaca chiamata Priel. Trascorremmo la notte sotto un grande tendone, al freddo e con gli abiti leggeri da lavoro che avevano al momento della cattura. Ripartimmo il mattino seguente, su autocarri, raggiungendo il lager 18° A, situato nelle campagne del comune di Trofaiach, regione della Stiria in Austria. Appena arrivati, ci sistemarono in una camerata di legno e ci assegnarono un postoletto su due piani; c’era un materasso di crine ed una coperta striminzita. Nella baracca eravamo in trenta. La notte faceva freddo, anche perché il riscaldamento era insufficiente a causa della carenza di combustibile. Finalmente la sera, il terzo giorno dalla partenza da Roma, ci portarono alla mensa dell’accampamento e ci diedero due mestoli di brodaglia composta da rape, barbabietole e qualche patata, oltre ad un chilo di pane fatto con farina di segale da spartire tra tre prigionieri nell’arco delle 24 ore. Il cibo fu questo per tutta la durata della nostra prigionia. Ci fornirono una tuta con scritto in bianco, dietro la schiena, la sigla KG, cioè “prigionieri di guerra”, e un paio di zoccoli di legno.
Come trascorreva le sue giornate? Com’era la vita nel campo di concentramento?
I Tedeschi ci utilizzarono come forza lavoro in una fabbrica, come avveniva per tutti i deportati. La fabbrica era una fonderia intitolata al comandante dell’Aviazione tedesca Hermann Goering e si trovava in località Leonben – Donawitz, a circa 25 Km dal campo. Per raggiungerla bisognava percorrere circa 5 chilometri a piedi fino alla stazione ferroviaria e altri 20 km circa in treno. Il primo turno di lavoro iniziava alle 6:00 del mattino e terminava alle ore 18:00, ma la sveglia suonava alle ore 4:00 per avere il tempo necessario per recarsi al lavoro. Il turno di notte iniziava alle ore 18:00 e terminava alle ore 6:00. Ogni turno durava una settimana. La mia mansione consisteva nell’effettuare la cernita dei rottami e di altri materiali ferrosi da introdurre, tramite apposite gru, in cassoni successivamente destinati agli altiforni dove sarebbero stati fusi per ottenere materiale necessario per costruire le paratie dei carri armati. Io ero l’unico italiano, coadiuvato da una giovane austriaca e da una ragazza ucraina che manovravano le gru. Anche se si trattava di un duro lavoro, mi reputavo fortunato, molto più dei soldati Russi che in genere venivano destinati agli altiforni e che vivevano in condizioni pessime, ancora più dure delle nostre. Nel mio settore il capo operaio era un tale Franz Mauta, un austriaco che mi prese a benvolere e che spesso mi forniva del pane e dello speck. Terminato il turno di lavoro, dovevamo ripercorrere il tragitto inverso, arrivando al campo intorno alle ore 20:00 e, dopo il contrappello, potevamo andare in mensa per avere il solito mestolo di brodaglia e quel poco di pane. Dopo il pasto, tornavamo nella baracca, stanchi ed infreddoliti a causa delle rigide temperature. A volte trovavo sotto il cuscino delle patate che un collega, addetto al servizio mensa, mi faceva trovare. Non esisteva biancheria intima e l’igiene, come potete immaginare, scarseggiava ed era al limite dell’umana sopportazione: i parassiti proliferavano! Mancavano locali di ricreazione, né mai si potevano chiedere periodi di riposo in branda, salvo in presenza di febbre alta. Le guardie armate sollecitavano ad alzarsi, apostrofandoci in tedesco: “Tu non sei malato e devi lavorare, perché il Reich ha bisogno di te!”. Il nostro lavoro coatto era ricompensato con alcuni fenich, ovvero sottomultipli del marco, con cui in fabbrica potevamo comprare qualche bicchiere di birra, giacché nell’accampamento non esistevano negozi. Considerando queste grosse privazioni, solo la Divina Provvidenza, a cui facevo continuamente appello, mi diede la possibilità di rivedere i miei cari.
Quando e come venne liberato?
Nell’Aprile del 1944 tutti i prigionieri italiani presenti nel campo furono invitati dall’autorità tedesca a riprendere, dopo sette mesi, il ruolo di militari. Si poteva scegliere di tornare in Italia e arruolarsi nell’esercito della Repubblica di Salò oppure essere inquadrati al fianco delle truppe tedesche. Si seppe in seguito che dietro quella iniziativa c’era il noto generale Rodolfo Graziani, all’epoca Capo di Stato Maggiore della sopra indicata repubblica. Ma nessuno di noi volle aderire, nonostante le gravi minacce, anche di morte, ricevute. Addirittura fummo costretti a rimanere a pancia a terra per un’intera giornata. Ma, nonostante tutto ciò, nessuno aderì alla proposta dei nazisti. Con tale comportamento intendemmo mantenere il giuramento di fedeltà prestato alla Patria. Mai avremmo potuto rinnegare gli ideali della Patria! Mai avremmo combattuto contro gli Italiani! Dopo tale episodio, il diabolico Hitler, al fine di aggirare la Convenzione di Ginevra che vietava il lavoro coatto ai prigionieri di guerra, ci fornì un tesserino d’ingresso in fabbrica e un passaporto con l’indicazione I.M.I., sigla che stava per Internati Militari Italiani ed indicava una speciale categoria predisposta dai nazisti che includeva tutta la forza militare italiana fatta prigioniera, ovvero oltre 600 mila unità torturate e costrette al lavoro forzato. Con tale provvedimento non ci fu più la scorta armata, né all’interno del lager né durante gli spostamenti ed il soggiorno nella fabbrica. Il lavoro rimase comunque coatto. Al ritorno in Italia il nostro gesto fu riconosciuto come un atto di Resistenza passiva e ci ha consentito di fregiarci del titolo di “Volontari della Libertà”, un bellissimo riconoscimento che però sarebbe arrivato molto tempo dopo. Nel frattempo fummo costretti ad affrontare un altro rigido inverno e le cose andarono avanti così fino alla primavera del 1945. Nel mese di Aprile del 1945, subii un incidente sul lavoro che mi costò la lussazione articolare tibio-tarsica sinistra, per cui fu necessaria l’ingessatura dell’arto. Poco dopo, la guerra terminò, ma con una gamba ingessata il viaggio di ritorno fu una vera avventura.
Come tornò a casa? E quanto tempo impiegò?
Fummo riportati tutti a Tarvisio, dove trovammo grandi tavolate di polenta. Fu una vera gioia poter riassaporare i gusti di casa e vedere volti amici. Io, però, a causa dell’incidente avuto durante la prigionia, avevo le stampelle, quindi per me fu molto difficoltoso tornare a casa. Con vari mezzi di fortuna, feci una prima tappa a San Donà di Piave e poi raggiunsi un grande centro di accoglienza a Bologna, dove incontrai un paesano, tale Pietro Ciapanna, che successivamente sarebbe morto di tubercolosi. Dopo lunghe peripezie, riuscii ad arrivare ad Alba Adriatica, dove incontrai mia cugina Giuseppina Foschi, che però non poteva certo accompagnarmi sulla sua bici mal ridotta, quindi si limitò a dare la notizia del mio arrivo ai miei familiari. Nel frattempo incrociai Primo Cichetti, padre del futuro sindaco Vincenzo, che si offrì di darmi un passaggio fino al paese. Arrivati però nella zona in cui oggi c’è il noto centro commerciale, ci fu un problema: il ponte del torrente Rio Moro era stato fatto saltare durante la Guerra e non era stato ancora ricostruito, quindi ci toccò guadare il fosso; nel risalire, a causa dell’eccessivo peso, il carretto, trainato da un asino, si staccò e io e mio zio fummo costretti a buttarci repentinamente a terra per evitare il peggio. Ancora una volta mi salvai e giunsi a piedi con le stampelle fino alla contrada Lamone di Colonnella, vicino al nuovo cimitero, dove c’era ad aspettarmi mio fratello Mario, il quale mi fece salire sulla traje (un mezzo di trasporto agricolo che si usava per caricare il fieno). Era ormai la fine di Maggio e giunsi finalmente a casa. La mia gioia era grande, ma i miei familiari, nel vedermi ingessato, anziché essere felici nel rivedermi vivo, cominciarono a piangere, pensando che avessi un arto di legno. Per fortuna non era così: la scoperta della verità fu una vera liberazione e così potemmo abbracciarci tutti pieni di felicità!
Dunque cosa fece dopo? Come proseguì la sua vita?
Ripresi la mia vita e il mio lavoro di Carabiniere: c’era da ricostruire un’intera nazione, con mille problemi da risolvere, ma tutti avevamo un grande entusiasmo e una grande gioia di vivere per la fine della dittatura, dell’occupazione, della guerra, della nostra prigionia. Ho militato nell’Arma dei Carabinieri per 36 anni, ricoprendo vari incarichi in diverse regioni, da ultimo nella mia Abruzzo. Oltre a Goriano Sicoli, Sulmona e Chieti, ho comandato anche la Stazione dei Carabinieri della nota località sciistica di Roccaraso per 11 anni, dove, insieme a mia moglie, Pia Ciocca, insegnante di origini aquilane, ho cresciuto i nostri tre figli: Franca Ida, Gabriella e Attilio, che oggi sono rispettivamente una dirigente scolastica, una architetto e un ingegnere.
Grazie alla Legge 296 del 2006, nel gennaio del 2010 sono stato insignito della Medaglia d’Onore come Volontario della Libertà, perché “catturato, deportato ed internato nei lager nazisti, 1943-45”. È stata per me una grande emozione ricevere questo riconoscimento durante il mandato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
Quale messaggio vuole dare ai nostri lettori?
Io, che ho vissuto in prima persona la guerra, non riesco a capacitarmi del fatto che il mondo sia ancora minacciato da così tanti conflitti. Prego in continuazione che non si ripeta più un orrore del genere. In questi lunghi anni che il Signore mi ha concesso di vivere dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, ho cercato in tutti i modi di diffondere e sostenere attivamente una cultura della pace. Da anni vado nelle Scuole Medie, nei Licei e nelle Università a raccontare la mia testimonianza: a Roma, dove vivono due dei miei figli; a Pescara, dove vive l’altra figlia; a Teramo e in tutti quei luoghi in cui mi invitano a partecipare. È un orgoglio per me riferire quello che ho vissuto, ma è anche un dovere che sento di portare avanti finché il Signore vorrà: è il dovere di ammonire i giovani a perseguire la pace, anche nelle piccole vicende quotidiane, perché la vera pace nasce proprio da lì. Spesso evito di vedere la televisione, perché non mi ritrovo più in tutti quegli episodi di violenza che sono ogni giorno in prima pagina. Cari bambini e ragazzi, siate buoni, ubbidite ai vostri genitori! Cari giovani, imparate a dare dignità al vostro corpo, a rispettare le regole e soprattutto le donne! Cari docenti, premiate chi davvero lo merita ed insegnate ai vostri studenti che, prima della preparazione scolastica o accademica, è importante possedere e perseguire valori fondamentali, come l’onestà, la giustizia, la solidarietà. Cari amministratori, affidate ruoli di responsabilità a persone che hanno alti valori. Solo così cambieremo la nostra società, se ognuno darà il suo contributo.