Filippo Passantino
Per lui era l’insegnante di religione negli anni del liceo, a Palermo. Ma è stato al termine della scuola che lo ne ha riscoperto il valore dell’impegno. E così don Pino Puglisi è diventato un riferimento per Vincenzo Ceruso, saggista, membro della Comunità di Sant’Egidio, segretario della Consulta delle aggregazioni laicali della diocesi di Palermo. Un modello di impegno per il suo impegno. Così è diventato negli anni. Tanto da volerlo raccontare in un volume che si intitola “A mani nude”.
Come hai conosciuto don Puglisi?
Don Puglisi era mio insegnante al liceo classico Vittorio Emanuele II, l’antico istituto al fianco della Cattedrale di Palermo dove lui insegnava religione. In realtà, mi piace dire che l’ho conosciuto davvero dopo, non solo rivisitando i miei ricordi, ma attraverso le carte di archivio e le testimonianze dei tantissimi che lo hanno conosciuto. Padre Puglisi era uno straordinario tessitore di legami. La sua è una vicenda complessa, che attraversa la storia della Chiesa palermitana lungo quasi mezzo secolo e occorre guardare attraverso molteplici punti di vista. Anche per questo il prossimo due ottobre, alle 17.00, presso la facoltà teologica di Sicilia, le associazioni, le comunità e le aggregazioni laicali della diocesi si riuniranno attorno al vescovo Corrado, con il professor Andrea Riccardi e con don Pino Vitrano, per un incontro dal titolo Il Vangelo nella città: Padre Pino Puglisi e fratel Biagio.
C’è un episodio in particolare che ricordi con affetto?
Feci con lui il corso di cresima e scelsi come padrino mio padre. Non mi piacevano i nomi suggeriti da alcuni familiari, uno in particolare, ed ero già allergico a quell’idea per cui la scelta del padrino dovesse inserirsi in una rete di rapporti amicali-parentali, per allargarla e/o renderla più stabile. Padre Pino mi guardò sorpreso quando glielo dissi e rispose: “vuol dire che avrai un padre-padrino!”.
Un altro ricordo che custodisco è quello legato ai primi tempi della Comunità di Sant’Egidio a Palermo. Nasceva intorno al 1990-91 un piccolo gruppo di giovani liceali, provenienti da zone diverse della città, che iniziava a fare volontariato con i bambini del quartiere del Capo e che si riuniva per confrontarsi e pregare insieme. Padre Puglisi guardava con simpatia a questa esperienza. Gli chiedemmo un posto dove riunirci e lui indicò la piccola chiesa di Santa Cristina la Vetere, alle spalle della Cattedrale. Fu il primo luogo di preghiera di Sant’Egidio a Palermo.
Qual era il suo rapporto con i giovani?
Era un rapporto all’insegna dell’ascolto e della libertà. Apparentemente, quando riuniva i giovani, non aveva un piano prestabilito di lavoro. Al tempo stesso, prendeva molto sul serio i ragazzi. Era lontano da un certo modello di prete giovanilista, allegrone e senza contenuti. Parlava della Parola di Dio, dei poveri, di come cambiare se stessi e il mondo, attingendo ad una visione della realtà tutt’altro che clericale, stratificata in una cultura laica che aveva assorbito attraverso una pluralità di letture.
Intitoli il tuo libro su di lui “A mani nude”. Perché?
È il primo tratto che mi ha colpito di lui quando sono tornato ad accostarmi alla sua figura in età adulta. È un’espressione di Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, che ha indagato a fondo sull’esperienza del martirio in età contemporanea. Il cristiano che opera nel mondo, anche nel mondo uscito da un regime di cristianità, in mezzo ai poveri, vive in condizioni spesso difficili, esposto al pericolo e lo fa a mani nude, disarmato, senza potere di alcun tipo, forte delle sue parole e della Parola di Dio. Così ha vissuto padre Pino. Per ucciderlo si nuove un commando composto dai più qualificati assassini mafiosi, appartenenti al mandamento palermitano di Brancaccio e autorizzati dai vertici dell’organizzazione criminale, dai fratelli Graviano a Leoluca Bagarella. In parte, si trattava degli stessi protagonisti della stagione stragista del 1992-93. Uno schieramento impressionante per uccidere un uomo solo e indifeso. Evidentemente, quel piccolo prete aveva toccato alcuni nodi essenziali del potere mafioso, a cominciare dal controllo del territorio e dell’influenza che la mafia sa esercitare sui più giovani. Ricordo un’assemblea molto affollata a Brancaccio, la prima dopo il suo insediamento come parroco. Padre Puglisi parlò alla fine e disse: “È tutto molto giusto quello che avete detto, ma qui uno dei problemi è la mafia. Ad esempio, la mafia decide chi deve affittare una casa oppure no, chi può vivere in una certa zona e chi no”. Mi colpì molto. Conosceva le dinamiche criminali in profondità e non aveva paura di denunciarle.
Quale portata rivela il fatto di essere la prima persona riconosciuta “martire” per mano mafiosa?
Rivela, insieme, la forza debole del Vangelo e la dimensione sacrilega di Cosa Nostra, che non tollera una presenza della Chiesa e dei cristiani che non si limiti ad una pura forma devozionale. È illuminante un’intercettazione in carcere di Salvatore Riina. Il capo di Cosa Nostra parla di don Puglisi e dice in siciliano stretto: “iddu avia a fari ù parrinu”. Cito a memoria, ma il senso è che lui doveva fare solo il prete, senza andare oltre il perimetro della sacrestia. È il contrario del lavoro che svolgeva don Pino, che s’interessava alla scuola, agli anziani soli, ma anche all’acqua, alle fognature, a servizi migliori per il quartiere e a mille altre cose. Parafrasando Paolo VI, tutto ciò che era umano lo riguardava.