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Intervista a Padre Silvano Nicoli: “Quando mi faccio compagno di viaggio di tanti malati, la mia vita diventa dono per loro”

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Responsabile della Comunità Religiosa dei Sacramentini presente in San Benedetto del Tronto, cappellano dell’Ospedale Madonna del Soccorso, viceparroco della Parrocchia San Giuseppe, il settantasettenne padre Silvano Nicoli è divenuto socio onorario del Circolo dei Sambenedettesi che gli ha conferito il titolo di “Sambenedettese d’adozione“.

Cosa ha pensato quando l’hanno informata del prestigioso riconoscimento? Se lo aspettava?
Non me lo aspettavo assolutamente! Ne sono stato sorpreso, onorato e anche un po’ imbarazzato. Sebbene io ami tanto la città di San Benedetto del Tronto e sia molto legato ai suoi abitanti, non credo di avere virtù particolari per meritare questo riconoscimento. Tuttavia l’ho accettato con piacere e gratitudine, nella consapevolezza che esso è, a sua volta, un segno di gratitudine dei Sambenedettesi nei confronti di tutti i Padri Sacramentini che si sono alternati nella nostra Comunità Religiosa. Questa è stata, infatti, la motivazione del riconoscimento ricevuto: “Presente fin da giovane seminarista nella nostra città in cui ha dimostrato anche buone qualità calcistiche, a parte brevi periodi, è rimasto sempre legato a San Benedetto, spendendo la sua opera in favore dei poveri e dei bisognosi ai quali ha prestato generosa assistenza materiale e spirituale. È particolarmente vicino ai sofferenti nel suo ruolo di cappellano presso l’Ospedale Civile, in coerenza con la cura che i suoi confratelli Padri Sacramentini in decenni di storia hanno sempre dedicato alla cittadinanza locale, in particolare durante i tragici eventi bellici del 1943-1944”.

Dove e quando è nata la sua vocazione?
Sono nato a Romano di Lombardia, in provincia di Bergamo, il 4 ottobre del 1946. Ho iniziato la mia vita in oratorio, dove è nata anche la mia vocazione. Terminata la quinta Elementare, un mio amico entrò in seminario e decisi di seguirlo. Fu una scelta superficiale più che un fascino per me. Dopo gli anni della Scuola Media, fui trasferito a Mogliano Marche, vicino Macerata. Questa esperienza fu molto significativa per la mia vita: qui infatti ritrovai il rapporto con la gente. Andai poi a Moncalieri, in provincia di Torino, per fare il noviziato, e successivamente venni per quattro anni qui a San Benedetto del Tronto, dove tentai come studente di fare le mie esperienze pastorali. Erano gli anni difficili della contestazione, il famoso 68, ma noi cercammo di entrare nelle varie parrocchie locali. Successivamente per tre anni fui trasferito nel seminario di Ponteranica ( Bergamo) a fare l’assistente degli studenti, l’educatore per intenderci. Anche lì provai a proporre quel che avevo sperimentato qui nella città rivierasca, ma lassù la mia iniziativa non fu ben accolta, tanto che, quando divenni prete, il 2 dicembre del 1973, mi fu detto che sarei stato destinato all’oratorio.

Dove ha svolto il suo servizio pastorale in questi anni?
Terminati gli studi al seminario di Bergamo, andai a Milano, in una grande parrocchia, convinto che sarei andato a convertire i peccatori. E invece mi aspettava tutt’altro! Iniziò infatti un periodo di grande crisi. In uno dei primi giorni un tale mi disse: “Ma chi ti ha cercato?!” Quella risposta mi fece pensare tanto! Allora mi rimisi a studiare e a confrontarmi con la Parola di Dio. Fortunatamente incontrai un sacerdote molto bravo, che era anche uno psicologo e che mi fece da assistente spirituale, il quale mi aiutò a discernere le situazioni della vita e ad avere un atteggiamento diverso nel mio servizio pastorale. Milano è una città molto laica, in cui vali per quello che fai e non per quello che sei; a me invece interessava essere persona. Lì, nell’oratorio, cominciai pian piano a rileggere la mia storia. Fu molto importante il contatto con le parrocchie e con le persone, il vero banco di prova: l’esperienza, infatti, è la vera formazione. Da lì nel 1984 giunsi a San Benedetto del Tronto a fare il parroco. I quattro anni vissuti qui, da studente, mi facevano sentire molto legato a questa città. Iniziammo a formare un gruppo di ragazzi, facendoli andare a Milano e Bergamo per animare i centri estivi (Grest) e i gruppi. Finché rimasi qui, cercai di portare avanti una pastorale del territorio, del quartiere, nel senso che chiedevo alla gente di abitare il territorio da cristiani: ecco allora che abbiamo cercato di uscire dal nostro chiostro per andare a fare comunità dove vive la gente. Il contatto con la gente mi ha aiutato a rileggere la mia storia, ad essere un sacerdote e a condividere la mia vita con gli altri. Divenni parroco di San Giuseppe e questo mi permise di attivare numerose iniziative. Successivamente fui trasferito a Pesaro, dove rimasi dal 1996 fino al 2008, quando fui richiamato qui a San Benedetto per dirigere la comunità. Dopo una pausa di alcuni anni, nel 2022 ho accettato di essere nuovamente il responsabile della Comunità Religiosa di San Benedetto: nonostante l’età, mi sono sentito di dover essere grato alla mia Congregazione e di dover restituire un po’ di quello che avevo ricevuto, essendo questa comunità composta da persone molto anziane e per diversi aspetti fragili.

Lei è il cappellano dell’Ospedale Madonna del Soccorso, un servizio che condivide con altri tre confratelli. Come vive questa esperienza di vicinanza alla sofferenza, alla malattia e anche alla morte?
Per stare vicino ai malati è importante prima di tutto la presenza come persona, ovvero come cristiano prima ancora che come sacerdote. Quando incontro un malato, non so come stia, che esperienza abbia vissuto e se sia credente. Negli anni ho imparato a guardare bene i malati, ad osservare il loro linguaggio anche quando non parlano e a stare con loro, a condividere la loro condizione umana, più che quella religiosa. Li vado sempre a salutare; a volte parlo con loro delle cure che stanno ricevendo, ma soprattutto dei problemi che hanno avuto; poi chiedo se hanno bisogno di qualcosa e se posso fare qualcosa per loro. È chiaro che, come sacerdote, porto anche dei segni: uno è la veste, un altro è la croce al collo, un altro ancora è il Sacramento dell’Eucaristia, ma il primo e più importante segno è la mia presenza. In ospedale abbiamo una cappella in cui diciamo Messa dal martedì al venerdì alle 8:20/8:30: Ho scelto quell’orario perché è un momento in cui ci sono sia i pazienti sia i loro familiari e talvolta anche il personale sanitario. Al termine di ogni celebrazione, diciamo sempre due preghiere: una è rivolta alla Madonna del Soccorso, che è la protettrice dell’Ospedale, e quindi è per tutti i malati; l’altra è rivolta a San Giuseppe Moscati, protettore dei medici, che preghiamo affinché essi si prendano cura non solo dei malati, ma della persona malata. Ci sono reparti in cui davvero bisogna entrare in punta di piedi, come ad esempio quello di Oncologia o di Geriatria o l’Hospice: lì bisogna essere davvero molto delicati e non bisogna insistere, in quanto ci sono pazienti di lunga degenza, spesso non autonomi, soli, che stanno affrontando una battaglia difficile ed estenuante o che si stanno avvicinando alla morte. Io, che sono stato un paziente oncologico, comprendo pienamente quello che passa nella loro vita; quindi so che non hanno bisogno di molte parole, bensì di una carezza, di un abbraccio, di una presenza con cui condividere i momenti di sofferenza e di solitudine. Quando mi faccio compagno di viaggio di tanti malati, per me l’ospedale diventa un luogo terapeutico, perché mi aiuta a dare senso e significato alla mia vita, una vita che non è più sterile, bensì diventa dono per loro.

Il prossimo 2 dicembre festeggerà cinquant’anni di sacerdozio, quindi, considerata la sua lunga esperienza, le chiedo: la Chiesa di oggi è bella, nel senso etimologico del termine, ovvero è capace di attrarre a sé, come faceva Gesù?
Credo che oggi la Chiesa non sia molto amata, anzi sia spesso anche un po’ bistrattata. Questo dipende da come viene guidata nelle parrocchie. A tal proposito mi sento di dire che il prete non è un funzionario e le parrocchie non sono dei feudi su cui governare, bensì dei riferimenti. I sacerdoti di frequente sono occupati a fare tante cose che potrebbero essere fatte dai laici, che invece spesso vengono visti come la manovalanza dei preti, come dei dipendenti. Dovendo adempiere a molti obblighi burocratici e pratici, i sacerdoti dedicano poco tempo ai laici per ascoltarli e parlare con loro. Quanti sacerdoti fanno direzione spirituale? Quanto spazio danno alle confessioni? Il sacerdote, dunque, non è il capo o il padrone della comunità cristiana, bensì è l’animatore della comunità cristiana, colui che accoglie ed unisce le varie realtà sociali già esistenti. Certamente il sacerdote non è chiamato ad accettare tutto e deve ovviamente dare delle priorità, perché altrimenti la parrocchia diventerebbe un centro sociale! Ma senza mai escludere un approccio umano e una pre-evangelizzazione, ovvero l’annuncio di alcuni fondamenti senza i quali non è possibile essere e fare Chiesa. Bisogna prima insegnare l’alfabeto della vita cristiana per poi poter parlare un linguaggio comune!
Dai giovani, in particolare, la Chiesa è amata, ma non frequentata: essi infatti vengono solo per determinate circostanze. Del resto non sono da biasimare! Quanto spazio diamo loro? Ce lo siamo chiesti? I giovani hanno bisogno di un nuovo modo di vedere la Chiesa, vogliono una Chiesa più autentica e più credibile. Su questo credo che si stia lavorando bene. Credo che la Chiesa si stia mettendo in discussione, stia ricercando le sue ragioni di vita e stia ritrovando nella parola di Dio il suo riferimento a qualcosa di Vero.

Dunque cosa si sente di dire ai suoi colleghi sacerdoti e anche ai laici per procedere in questa direzione di rinnovamento o, se vogliamo, di ritorno all’autenticità?
Il sacerdote deve rispondere ad una doppia chiamata, come accade anche alle coppie di sposi: dopo un breve periodo di innamoramento, arriva il periodo del vero amore. Così è anche per noi sacerdoti: all’inizio ci siamo incontrati con il Signore e c’è stato subito molto entusiasmo; ma poi, andando avanti, siamo diventati fragili. Se in quel momento di crisi non si ritrova la capacità di farsi interpellare nuovamente dal Signore, quindi da una seconda chiamata, il giovane sacerdote va in depressione oppure si occupa solo per gratificarsi e non per donarsi. La mia esperienza è questa.
Perciò, sia ai sacerdoti sia ai laici, dico che di fronte a Dio non esistono queste distinzioni: siamo tutti cristiani e tutti chiamati a riscoprire il vero Amore, quello che ci permette di agire da entusiasti, nel senso etimologico del termine, ovvero da persone che hanno Dio dentro, che ne sono colme, strabordanti.

 

Carletta Di Blasio: