“Signore, ascolta la mia preghiera!
Per la tua fedeltà, porgi l’orecchio alle mie suppliche e per la tua giustizia rispondimi” (v. 1). Anche il Salmo 143, come il precedente, è una supplica a Dio nel momento della prova, ma questa volta ciò su cui il salmista accentra la sua attenzione è la verità che nessun uomo può dirsi del tutto innocente di fronte a Dio. “Non entrare in giudizio con il tuo servo: davanti a te nessun vivente è giusto” (v. 2). Anzi, ecco il paradosso che nella fede il credente esprime: la giustizia di Dio è talmente intrecciata alla sua misericordia, che è proprio attraverso di essa che possiamo rivolgerci a lui anche senza niente in cambio, confidando che il suo giusto giudizio non sarà secondo i nostri umani parametri. Non si fa riferimento a buone azioni o meriti, si riconosce solo la propria imperfezione ed è questa stessa ammissione di fragilità che permette di entrare in comunicazione con il Padre, perché è in questo spazio dell’anima che egli può agire. Come un bambino che abbia combinato l’ennesimo guaio e che, però, è riuscito ad avere il coraggio di chiamare suo padre in disparte e confessargli tutto. “Il nemico mi perseguita, calpesta a terra la mia vita; mi ha fatto abitare in luoghi tenebrosi come i morti da gran tempo. In me viene meno il respiro, dentro di me si raggela il mio cuore” (vv. 3-4). Non si è trattato di una disavventura come tante altre, questa volta il figlio non solo ha perso la strada, ma ha vissuto un’esperienza così fallimentare e dolorosa da compararla ad una morte fisica e spirituale. C’è un nemico che non mi fa vedere la bellezza dell’esistere, ha accecato il mio sguardo di bene sulle persone e sulle cose e questo mi relega in una condizione in cui sono come un defunto, come quel Lazzaro, amico di Gesù che era nel sepolcro già da qualche giorno. Ancora una volta il riferimento al respiro e al cuore è un esplicito richiamo alle parti più intime di ognuno di noi, quelle senza le quali non possiamo esistere. Ma come rianimarle? Come ridare vita a ciò che dentro di noi è morto a causa del peccato? “Ricordo i giorni passati, ripenso a tutte le tue azioni, medito sulle opere delle tue mani.” (v. 5).
Per tornare alla vita, la prima disposizione interiore è la confessio laudis, cioè avere la forza d’animo, il coraggio, la stessa onestà intellettuale di fare memoria di tutto il bene ricevuto dal Signore. In tutta la Bibbia il tema della memoria è fondamentale perché il ricordo dei benefici ricevuti è già un balsamo che cura la ferita per aver commesso il male o averlo subito. Se guardiamo la nostra storia con gli occhi di Dio essa non è mai fallimentare e anche quando vi sono delle colpe, saper tornare indietro e chiedere scusa, anche solo per una mancanza di gratitudine, permette di rimettersi in cammino. Quando in famiglia ci sono più figli, spesso fra fratelli nascono dispute dovute alla gelosia, oppure rimostranze perché uno crede di essere stato redarguito ingiustamente di più, o al posto dell’altro. Spesso sta ai genitori farsi mediatori e invitare tutti a volgere lo sguardo verso l’alto, verso il Padre di tutti, perché ciascuno riesca a fare luce nel suo intimo, a riconoscere il suo errore e a perdonare quello altrui.
Ma la battaglia non è terminata e il salmista prosegue chiedendo al Signore di irrigare la sua anima assetata di vita (cfr. v. 6) e rivolgendogli un nuovo appello accorato, come di un naufrago che stia affogando: “Rispondimi presto, Signore: mi viene a mancare il respiro. Non nascondermi il tuo volto: che io non sia come chi scende nella fossa” (v. 7). Ecco, quando davvero ci pare di aver toccato il fondo, la mano del Signore ci rialza e ci permette di attraversare la notte fino ad un giorno nuovo: “Al mattino fammi sentire il tuo amore, perché in te confido. Fammi conoscere la strada da percorrere, perché a te s’innalza l’anima mia. Liberami dai miei nemici, Signore, in te mi rifugio. Insegnami a fare la tua volontà, perché sei tu il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in una terra piana” (vv. 8-10). Il Dio a cui il salmo si rivolge è proprio come un padre che, dopo il momento più difficile e lo spavento più tremendo, riesce a tranquillizzare suo figlio con tutte le forme dell’amore genitoriale: la presenza fisica, la tenerezza, ma anche l’insegnamento di nuovi accorgimenti per proseguire su un terreno che con la sua guida sembra meno scosceso. “Per il tuo nome, Signore, fammi vivere; per la tua giustizia, liberami dall’angoscia. Per la tua fedeltà stermina i miei nemici, distruggi quelli che opprimono la mia vita, perché io sono tuo servo”. (vv. 11-12). Ancora un richiamo finale alla giustizia e alla fedeltà di Dio, piuttosto che alla nostra: a ricordarci ancora una volta che è nel saperci figli, incapaci di compiere da soli il bene, che scopriamo ogni giorno il senso della nostra vita.