SAN BENEDETTO DEL TRONTO – “La vera trasgressione è fare una famiglia e mettere al mondo dei figli. Ci vogliono impegno e coraggio, soprattutto per le donne”. – Così diceva la celebre rockstar italiana Vasco Rossi già più di dieci anni fa. Vogliamo allora ascoltare dalle dirette interessate, le mamme, se e perché abbia ancora senso oggi puntare sulla famiglia e su una genitorialità fatta di amore, sacrificio e responsabilità.

Dopo aver raccontato la storia di Claudia Lo Guasto (https://www.ancoraonline.it/2023/09/07/rubrica-mamme-claudia-lo-guasto-la-felicita-scelta/), incontriamo oggi Giusy Cataffo, che, insieme al marito Lucio Sgariglia, ha messo al mondo tre figli: Daniele Maria, di cinque anni; Samuele Elia, che ha un anno e mezzo; Gabriele Enea, che è nato venerdì scorso, 22 settembre.
La redazione del giornale diocesano coglie l’occasione per fare a Giusy e Lucio i migliori auguri per la nascita del piccolo Gabriele!

Quando e come è nato il suo desiderio di maternità?
Questa è proprio una bella domanda, perché questo desiderio mi si è presentato all’improvviso e in una circostanza assolutamente singolare.
Io sono nata con una cardiopatia congenita. Quando il chirurgo specializzato in malattie come la mia, mi vide per la prima volta quarant’anni fa, disse a mia madre che, se non avessi fatto un intervento, probabilmente non sarei sopravvissuta oltre il primo anno di vita. L’ansia di mia madre di affrontare l’intervento e la paura di perdermi non mi permisero mai di prendere quella decisione, anche perché i medici mi dicevano che, nonostante la cardiopatia, il cuore era ben compensato, quindi questo mi dava speranza. Così, seppur con difficoltà ed una vita sotto una campana di vetro, di anni ne trascorsero ventotto, finché la malattia divenne più aggressiva ed ingestibile. Ricordo che il solo gesto di alzare le buste della spesa mi faceva diventare il volto viola! A quel punto fu necessario valutare nuovamente l’ipotesi di un intervento chirurgico. I medici mi dissero che, se non mi fossi sottoposta all’operazione, avrei potuto avere un’aspettativa di vita di massimo dieci anni. Se avessi tentato l’intervento, però, ci sarebbero stati comunque dei rischi: avrei avuto infatti solo un 30% di possibilità di non farcela. Quindi la scelta era tra un 30% di possibilità di morire subito o un 100% di possibilità di morire nell’arco di dieci anni. La paura mi bloccò e decisi di non fare nulla. Al controllo annuale successivo, il chirurgo mi disse che la situazione era stabile, ma che doveva darmi una brutta notizia, ovvero che, con quel cuore, avrei dovuto rinunciare per sempre all’idea di diventare madre. Non so cosa mi passò per la testa, ma quella frase fu la leva che mi fece capire che mai avrei voluto rinunciare alla possibilità di diventare mamma. Non so dove trovai il coraggio di prendere una decisione così ardua, ma scelsi immediatamente di tentare l’intervento, che per me era una sorta di intervento della speranza: diciotto ore in sala operatoria per un’operazione a cuore aperto con circolazione extracorporea. Era l’ottobre del 2012. Ringraziando Dio e tutto lo staff del dott. M. Pozzi del reparto di Cardiochirurgia Pediatrica dell’Ospedale “G.M. Lancisi – Torrette” di Ancona, tutto andò bene. Solo dopo mi resi conto che avevo rischiato la vita per diventare madre. Un rischio alto, con poche prospettive di salvarmi, ma il mio desiderio di maternità era più forte della paura di morire. Quando oggi ascolto o leggo la notizia di un bambino abbandonato o di una gravidanza arrivata per leggerezza e superficialità e poi interrotta, davvero non riesco a comprendere certe scelte. Dico a tutte le donne, anche a quelle più giovani, di non prendere decisioni avventate: non siete sole, non sentitevi sole; se avete bisogno d’aiuto, chiedete e lo riceverete; se anche dopo averci riflettuto a lungo comunque decideste di non volere un figlio, potreste sempre darlo in adozione. Ci sono tante donne pronte ad accogliere una nuova vita.
Ora che ci penso posso dire quanto sia stato importante per me quell’intervento ben riuscito: è stato il dono più grande che il Signore potesse farmi! Grazie ad esso, infatti, non solo ho ricevuto una seconda vita, non solo ho ricevuto la possibilità di donare a mia volta la vita, ma ho anche ricevuto la fede! Io provengo da una famiglia cattolica, quindi ho sempre avuto intorno a me una figura cristiana di riferimento e mi sono sempre definita credente; ma solo dopo questo intervento ho capito cosa significhi davvero avere fede. Da allora sono grata al Signore e soprattutto ripongo in lui ogni speranza. Da dieci anni io e mio marito facciamo parte di un movimento cattolico che si chiama “Gloriosa Trinità”, grazie al quale abbiamo intrapreso un percorso spirituale che ci ha aiutato moltissimo a non perdere di vista l’essenziale nella nostra vita, ovvero il Signore. Essere cristiani, infatti, non significa andare a Messa la domenica e per il resto della settimana dimenticarsi di Dio. Al contrario, è nella quotidianità che si esplica il nostro essere cristiani, nel modo di vivere, nello stare accanto agli altri, nello gestire la nostra vita, nel compiere scelte. Per questo motivo, insieme agli altri fedeli, una volta alla settimana, ci riuniamo e preghiamo insieme alle nostre famiglie, quindi insieme ai nostri figli, che sono di tutte le età: bambini, ragazzi, adolescenti; due volte all’anno viviamo dei ritiri spirituali e d’estate poi facciamo una vacanza comunitaria, quindi scegliamo una meta che abbia prezzi modici e ci andiamo con tutta la famiglia. In tutti gli incontri ascoltiamo la Parola del Signore e ci confrontiamo, ciascuno raccontando la propria esperienza. Siamo proprio felici di percorrere questo cammino che abbiamo iniziato prima ancora di sposarci, perché, grazie ad esso, riusciamo a vivere la nostra fede con maggiore slancio e profondità.

Quando e come ha conosciuto suo marito?
Io e mio marito stiamo insieme da quindici anni, ma non è stato facile per noi raggiungere lo stato di cose che abbiamo oggi. Io sono originaria di Napoli, un luogo bellissimo ma che a me purtroppo ricorda un’infanzia ed un’adolescenza in cui non mi sentivo libera. In particolare con mia madre ho avuto un rapporto incompreso, in quanto ritenevo la sua ansia opprimente, l’unica responsabile delle mie incapacità fisiche e sociali. Sono riuscita a ricomporre questo legame solo dopo essere diventata madre a mia volta. Questo è stato un grande passo per me, perché, dopo averla perdonata, è diventata la mia più grande alleata nella crescita dei miei figli. Quando a diciannove anni mi sono dovuta trasferire in Abruzzo per motivi di lavoro, i miei non accettavano il fatto che io stessi lontano da casa con il mio fidanzato, quindi per cultura dei nostri familiari abbiamo deciso di sposarci.
Dopo neanche un anno, il matrimonio è naufragato e io mi sono sentita sbagliata. Mi sono resa conto quasi subito di aver affrontato il matrimonio con grande superficialità, cedendo alle insistenze dei miei familiari che, come in altre circostanze della vita, hanno scelto al posto mio. Ringraziando Dio, ho iniziato un percorso di fede che mi ha aperto il cuore e la mente. Quando ho capito l’errore che avevo commesso, ho chiesto l’annullamento alla Sacra Rota, perché ho finalmente compreso il valore del matrimonio e del sacramento che avrei voluto vivere.
Quando ho conosciuto il mio attuale marito, ho visto proprio la differenza di consapevolezza nell’affrontare ogni scelta e, più in generale, la vita insieme. Consideri che ci siamo sposati dopo molti anni trascorsi come fidanzati, dopo aver affrontato la mia malattia e anche la mia prima gravidanza. Abbiamo atteso l’annullamento alla Sacra Rota e poi ci siamo sposati il 10 ottobre 2020, durante il primo anno di pandemia, presso la Cattedrale Santa Maria della Marina. Vista la situazione, eravamo pochissime persone ed abbiamo festeggiato tutti con le mascherine, a distanza.
Nonostante sapessimo di non poter vivere la festa che avevamo sognato, dopo aver atteso così a lungo ed averne superate tante, non volevamo aspettare ancora.
Pertanto, nonostante le circostanze, nonostante le difficoltà, nonostante quello che diceva la gente, nonostante la situazione economica generale di quei tempi, nonostante tutto ciò che avevamo intorno, abbiamo pensato che quello che conta veramente è ciò che abbiamo nel cuore: poiché avevamo fatto tanta strada insieme, un lungo percorso di discernimento e perdono, finalmente ci sentivamo pronti ad affrontare il resto della nostra vita insieme, sotto la protezione dello Spirito Santo. Non abbiamo avuto paura di nulla e continuiamo a non averne, in quanto crediamo che il Signore, attraverso la Provvidenza, si manifesti a noi anche nelle difficoltà.

Quando sono nati i suoi figli?
A causa dell’intervento, purtroppo, non ho potuto avere subito dei figli, perché il mio cuore aveva bisogno di assestarsi bene nel mio corpo e di riprendere i ritmi giusti ed abituali. Abbiamo seguito scrupolosamente le direttive dei medici e, dopo sei anni, nel 2018, quando io ne avevo trentacinque, finalmente è arrivato il mio primo figlio, Daniele Maria. Da subito abbiamo pensato di dargli una compagnia, quindi, superato il periodo più critico della pandemia, dopo tre anni e mezzo, nel 2022 è arrivato anche Samuele Elia, che adesso ha un anno e mezzo. A distanza di quasi un anno, questa volta inaspettatamente, ho scoperto di essere di nuovo incinta. Nonostante qualche timore di non essere preparata a gestire tre figli così piccoli, ho accolto con grande gioia la notizia: a me e mio marito piacciono le famiglie numerose e riteniamo che un figlio in più porti anche tanta felicità in più. Tre giorni fa quindi è nato anche Gabriele Enea, il nostro terzo figlio. Per tutti e tre abbiamo scelto nomi biblici, che nella loro etimologia contengono la parola “Dio”, perché per noi loro tre sono davvero un dono di Dio.

Che messaggio vuole dare ai lettori?
Quando ho scelto di diventare madre, avevo molte aspettative legate alla maternità: sognavo di essere una mamma perfetta, sempre in ordine, attenta e soprattutto molto presente. La quotidianità però è stata ben lontana dai sogni! Questa cosa all’inizio mi ha messo in crisi, perché non ero la mamma che avevo sognato di essere. Allora ho pensato di documentarmi e di studiare i diversi aspetti della genitorialità e mi sono appassionata così tanto all’argomento che, dopo aver ottenuto le giuste qualifiche, ne ho fatto un lavoro! Oggi sono una consulente genitoriale e, sia come professionista che come madre, posso dire che le madri hanno bisogno di maggiore consapevolezza delle proprie emozioni: non è necessario essere perfette, anche perché grazie al cielo la perfezione non esiste; occorre invece conoscere ogni lato della genitorialità e saper gestire le dinamiche emotive che la caratterizzano, quelle dei figli, ma anche quelle di noi genitori, per saperle esternare e vivere nella giusta maniera. Oggi la società è spesso intenta a sottolineare quello che la genitorialità presumibilmente toglie, ovvero la libertà, la leggerezza, il divertimento, la spensieratezza, facendo passare la responsabilità come un ostacolo a vivere la felicità. Al contrario, io credo che sia necessario riconsiderare il valore del sacrificio, come strumento per sentirsi ancora più vivi, per avvicinarsi a Cristo, ma anche per vivere bene. Spesso infatti si persegue un ideale di perfezione di vita serena che non è raggiungibile e si vive quindi solo di frustrazioni; al contrario, quando si accetta il fatto che la realtà non è perfetta, allora si comprende che si può vivere anche con sacrificio, anche nelle difficoltà, ma nella speranza e nella gioia. In tal senso ritengo che la comunicazione possa fare molto. Noi genitori siamo chiamati a raccontare, tanto sui social quanto di persona nella vita di tutti i giorni, non solo le preoccupazioni di alcuni momenti, ma anche la gioia dell’essere madri e padri; non solo la fatica nel riordinare casa continuamente, ma anche l’allegria che c’è intorno a noi quando i nostri figli giocano; non solo l’impossibilità di uscire fino a tardi la sera, ma anche le risate e gli abbracci che i nostri piccoli ci danno; non solo le notti trascorse completamente svegli, ma anche la gioia delle giornate vissute al parco, delle feste con gli amici, della prima parola pronunciata o dei loro primi passi. E lo stesso dovrebbe valere per i media: così come a volte raccontano la gioia di chi ha scelto di non sposarsi o di non avere figli, dovrebbero raccontare anche la solitudine di chi ha scelto strade diverse dalla maternità, i rimorsi di chi ha abortito, i vuoti che alcune scelte provocano e che, a distanza di anni, ancora non sono colmabili.

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