Pietro Bartolo racconta, commosso, il naufragio del 3 ottobre 2013 (foto SIR/Marco Calvarese)

Gianni Borsa e Marco Calvarese da Strasburgo

(Strasburgo) “3 ottobre di dieci anni fa. Un giorno particolare, per Lampedusa, particolare per me, ma soprattutto per quelle persone che hanno perso la vita. 368 persone hanno perso la vita”. Pietro Bartolo, per 30 anni medico di Lampedusa, la sua terra. Oggi, a 68 anni, è eurodeputato: una scelta, quello di dedicarsi alla politica, per cercare soluzioni “vere” e risposte “umane”, spiega, ai flussi migratori; e poter dare voce a quanti sono costretti a emigrare verso l’Europa per cercare una vita dignitosa, pur sapendo che, attraverso il Mediterraneo, potrebbero perdere la vita.

“Sono persone, non numeri”. Al Sir dice: “non mi stancherò mai di chiamarle persone. Qualcuno non sa più come chiamarle: rifugiati, richiedenti asilo, clandestini, migranti economici, migranti climatici… Sono persone, molte delle quali perdono la vita”. “Quel giorno sul molo Favarolo – quel molo che io definisco la mia seconda casa, dove per trent’anni ho passato più giorni e notti che a casa mia – sono stato chiamato dalla Guardia costiera. In realtà quella notte ero stato sulla banchina, perché erano arrivati via mare 840 siriani, che avevo visitato, come sempre. Ma la telefonata di quella mattina era drammatica: me ne ero subito reso conto dalla voce di chi mi chiamava dalla capitaneria. ‘Dottore, c’è stato un naufragio’. Di naufragi ne avevo visti tanti. Con tanti morti. Ma non potevo immaginare 368 persone morte”. “Quando è arrivata la prima barca, del mio amico Vito Fiorino, con l’amica Grazia, raccontavano di aver sentito le urla” di chi era in acqua. Una barca piccola, la loro, sulla quale avevano caricato 49 persone: “era carica, tanto che stava affondando. Grazia mi disse: ‘sai Pietro, non abbiamo potuto caricarne di più, stavamo affondando anche noi. C’è tanta gente che chiede aiuto’”. Lì i primi soccorsi, qualcuno, in condizioni più gravi, trasportato al poliambulatorio. Poi l’arrivo “di una seconda barca, di un altro mio amico, Domenico”. Altre 17 persone portate in salvo, più 4 cadaveri recuperati. “Era disperato, avrebbe voluto salvarne di più”. Bartolo si sofferma sulle visite di giovani raccolti in ipotermia, sul dovere di accertare se qualcuno fosse affetto da malattie infettive gravi (“in tanti anni non ho mai riscontrato nessuno con una di queste malattie, che potesse mettere a rischio l’incolumità nazionale”).

Il molo di Lampedusa (Ph. Mediterranean hope)

“Tutti quei sacchi neri…”. Il racconto si sposta “sui quei sacchi neri, quelli con la cerniera, dove si mettono i cadaveri. Io odio quei sacchi, ne ho paura…”. Dopo i primi tre annegati, in rigidità cadaverica, dal quarto sacco si intravvede una ragazza, giovane. “Le ho preso il polso tra le mani, mi è sembrato di sentire un battito. Lieve, quasi impercettibile”. Da lì la corsa al piccolo ambulatorio dell’isola, una puntura intracardiaca di adrenalina: “e il cuore di quella ragazza è tornato a battere regolarmente, per poi portarla in elicottero a Palermo”. Una vita salvata. “Ho poi saputo che dopo 40 giorni Kebrat – il nome della ragazza – era stata dimessa dall’ospedale”.Quel giorno “il molo Favarolo ero pieno di sacchi”, con i cadaveri dei migranti annegati nel tratto di mare tra l’Africa e l’isola di Lampedusa.“Quei sacchi che qualcuno ha definito ‘confezioni’…”. Pietro Bartolo prosegue il suo racconto al Sir del naufragio del 3 ottobre 2013, e si commuove più volte. Parla delle “ispezioni cadaveriche”: “stavo male. Io sono un ginecologo, ho studiato per la vita, non per la morte. Ma ho dovuto imparare sul campo, per quelle pratiche che sono importanti”, anche per un eventuale riconoscimento della salma. Si addentra nei particolari, la voce rotta dall’emozione. “Speravo che almeno nel primo sacco non ci fosse un bambino. Invece era proprio un bambino. Un bambino piccolo, avrà avuto tre anni, tre anni e mezzo, aveva un pantaloncino rosso e una maglietta bianca. Era bello… Me lo sono portato all’orecchio per sentire il battito cardiaco, l’ho guardato intensamente negli occhi” per cercare un segno di vita. “Ma era morto. E così tutti gli altri”. Nella borsa del medico di Lampedusa una bottiglia d’acqua, un asciugamani, un pettine: per pulire i volti, per ricomporli al meglio, “per renderli quanto più riconoscibili possibile”, per dare dignità e un nome a quelle persone annegate. “Quante volte ho pianto, ho vomitato, ho avuto paura”: ore e giorni terribili su quel molo di approdo. “Quel bambino lo sogno spesso. Ancora l’altra sera, che mi tira i capelli. Lo vedo… Non l’ho salvato, ma cosa potevo fare?”. Bartolo cita Alan Kurdi, il piccolo che perse la vita di fronte alle coste turche: “io di Alan Kurdi ne ho visti a centinaia. Ma nessuno si indigna più, nessuno ci fa caso. C’è assuefazione. Perché non si vuole risolvere questo problema. Così, tante volte ho avuto la tentazione di lasciare tutto”.

“La politica deve dare le risposte”. “Ci sono stati momenti di scoraggiamento: in tutti quegli anni non cambiava nulla. Ogni giorno mi chiedevo cosa si potesse fare, anche per cambiare la narrazione” sulle migrazioni. “Troppe volte ho sentito politici parlare con sufficienza e con distacco” dei migranti, “definiti delinquenti, da rimandare a casa, da rimpatriare. Dobbiamo difendere i nostri confini, hanno detto. Mi montava la rabbia e mi chiedevo: ma voi le avete mai viste negli occhi quelle persone? Sentivo una responsabilità, vedevo quanto stava succedendo. Allora mi sono inventato di tutto. Mi sono aggrappato al mondo della cultura, ho avuto la fortuna di incontrare il regista Francesco Rosi e l’ho costretto a fare un film, ‘Fuocoammare’”, che descrive la tragedia dei migranti attraverso il mare. L’eurodeputato aggiunge: “mi sono messo a scrivere libri, ad andare nelle scuole e in giro per l’Italia” per raccontare quanto stava accadendo. Fino alla scelta attuale: “entrare in politica, perché io credo che alla fine chi deve dare risposte è la politica. Sono venuto qui, nel cuore dell’Europa, per cercare delle soluzioni”.

(foto SIR/Marco Calvarese)

“No a respingimenti e fili spinati”. L’eurodeputato è impegnato fra Strasburgo e Bruxelles per realizzare il nuovo “Patto su asilo e migrazione”, al quale si lavora da tempo nelle sedi europee, con forti resistenze da parte degli Stati membri. “Quello recente, proposto dalla Von der Leyen”, la presidente della Commissione europea, “io lo definisco un ‘pacco’ sulla migrazione, addirittura peggiorativo dell’Accordo di Dublino”. La risoluzione adottata da tempo dal Parlamento europeo, proposta ai governi dei 27, sottolinea Bartolo, “è un compromesso, ma almeno è rispettoso dei diritti umani, rispettoso degli accordi internazionali”. L’eurodeputato denuncia i respingimenti (nel Mediterraneo, in Croazia, a Ceuta e Melilla, in Bielorussia…), contrari proprio al diritto internazionale.“Io spero che si possa arrivare a comprendere che il fenomeno migratorio non è emergenziale ma strutturale. E non funziona una risposta che prevede solo respingimenti, rimpatri, accordi con Paesi governati da dittatori. Non funzionano i muri né i fili spinati”: chi emigra, sapendo dei rischi da affrontare, non può essere fermato, perché “non ha alternative”. Bartolo ha percorso tutte le rotte migratorie che portano in Europa: “ci sono stato per capire cosa succede”. Poi sul volto del medico si riaffacciano le lacrime: “io sono di Lampedusa, quell’isola mi ha dato tutto. E se penso che è diventato un cimitero” in mezzo al mare, “con 50mila morti… Invece il mare dev’essere vita, un ponte, non un cimitero”. Da qui un elogio ai suoi conterranei, “un popolo straordinario i lampedusani, che da trent’anni accolgono le persone, senza lamentarsi, aprendo i porti e le porte”.

“Soluzioni rispettose dei diritti umani”. Infine Bartolo torna a invocare una risposta politica alle migrazioni, “che sia rispettosa dei diritti umani, perché – lo ripeto – stiamo parlando di persone, non di numeri. Se l’Europa è stata giustamente capace di accogliere 5 milioni di ucraini”, allo stesso modo possono essere accolte “alcune migliaia” di persone che giungono da Africa e Medio Oriente. “L’Europa si fonda sui grandi valori fissati dai padri fondatori: stato di diritto, diritti umani, accoglienza, solidarietà”, valori iscritti nei trattati. La soluzione va trovata lì, “per evitare ciò che sta accadendo nel Mediterraneo: un genocidio. Eppure tutto questo deve finire. E finirà”. “Occorre cambiare paradigma. Non ci sono confini da difendere, come se fossimo in guerra. Dobbiamo ritrovare il senso di umanità, che abbiamo perso, un po’ di compassione, perché se queste persone scappano, lo fanno perché ci sono povertà, violenze, cambiamenti climatici. E lì ci sono anche nostre responsabilità. Se queste persone muoiono è anche nostra responsabilità”. In Europa i migranti “dovrebbero arrivare tramite canali regolari, mediante corridoi umanitari. Stiamo parlando di ‘cristiani’, come diciamo in siciliano: non in senso religioso, ma umano. Esseri umani. Donne, bambini, uomini, intere famiglie”. “I confini vanno controllati, ovviamente, per contrastare il traffico di droga, di armi, per il terrorismo”, senza dimenticare però i diritti umani. Bartolo richiama ancora il rispetto dei valori costitutivi dell’Europa e quelli rappresentati dalla Costituzione italiana. Quindi contesta i Cpr (“sono delle carceri, dove si finisce senza aver commesso alcun reato” e che possono essere evitati “pagando – quello sì – un pizzo di Stato”). Pietro Bartolo riprende il cammino. Il 3 ottobre al Parlamento europeo di Strasburgo è prevista una commemorazione ufficiale del naufragio di dieci anni or sono, con un discorso in emiciclo della presidente, maltese, Roberta Metsola.

 

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