SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Non a tutti è permesso di sognare. Non a tutti è concessa la libertà. Non a tutti è dato vivere in un luogo in cui la giustizia e l’uguaglianza sono sanciti dalla Costituzione e sono anche alla base della convivenza comunitaria. Dipende dalla parte del mondo in cui hai avuto la fortuna di nascere.
Tutti riconosciamo il diritto di un giovane di lasciare la propria terra per andare in un’altra parte del mondo alla ricerca della propria felicità.
Lo abbiamo riconosciuto ai nostri nonni che sono andati all’estero, alcuni addirittura in America, per realizzare i loro sogni. Lo riconosciamo anche ai nostri figli che spingiamo, se ne abbiamo la possibilità, a viaggiare all’estero per formarsi meglio negli studi e nel lavoro. Lo riconosciamo a tutti noi, finché pensiamo ad uscire dal nostro bel Paese. Ma se al contrario pensiamo agli stranieri che giungono in Italia, questo diritto di circolazione, questa libertà di cercare fortuna altrove, questo sogno di trovare la felicità in un luogo diverso da quello di nascita, tutto questo non lo riconosciamo più.
Ho pensato a questo, mentre guardavo il film “Io capitano” di Matteo Garrone, quando sono andata al Cinema Concordia di San Benedetto del Tronto, lunedì 3 ottobre, insieme a don Gianni Croci e agli ospiti e ai volontari della Caritas Diocesana.
Un film che onestamente è un po’ un pugno nello stomaco. Non è la classica storia di povertà di fronte alla quale una spettatrice sensibile come me potrebbe facilmente impietosirsi. È molto peggio! Commuove, senza impietosire. Scioglie il gelo dei cuori. Scuote le coscienze.
È un pugno nello stomaco la storia di questi due cugini senegalesi adolescenti che decidono di partire per l’Europa per realizzare il loro sogno di diventare ricchi e famosi, spinti non certamente dai genitori, bensì dall’idea di un Vecchio Continente colmo di agiatezze e libertà. Almeno a giudicare da come viene presentato attraverso le immagini patinate del web.
È un pugno nello stomaco il sogno di questi due ragazzi che ben presto si trasforma in una lotta per la sopravvivenza. I due protagonisti, infatti, dovranno attraversare il deserto del Sahara, scampare alle prigioni libiche e superare un viaggio molto rischioso nel Mediterraneo in cui si scontrano con molti problemi, tra i quali anche la lentezza (o forse la crudeltà) della burocrazia.
È un pugno nello stomaco il viaggio compiuto su una vecchia imbarcazione di cui, ad un certo punto, Seydu diventa anche capitano, senza capire neanche come sia successo! Ma non solo a questo fa riferimento il titolo del film. Il giovane sedicenne senegalese, infatti, oltre che capitano della barca sovraffollata che guida con un misto di incoscienza, fierezza e terrore, diviene capitano anche della sua vita e della vita di tutti coloro che trasporta su quella barca.
È stato un pugno nello stomaco anche pensare che i protagonisti di questa storia hanno l’età delle mie figlie. Impossibile dimenticare gli occhi così espressivi di Seydu che sono valsi all’interprete Seydou Sarr, il Premio Marcello Mastroianni per miglior attore esordiente. Così come non dimenticherò gli occhi gonfi di lacrime di alcuni ospiti della Caritas Diocesana e di alcuni volontari, mentre guardavano il film. Una commozione che è stata costante per tutta la durata del lungometraggio e che si è trasformata in un lungo applauso durante i titoli di coda.
Terminata la proiezione, ho avvicinato i giovani della Caritas e ho chiesto di poter intervistare due di loro. La mia scelta è ricaduta su un ragazzo del Senegal e uno della Guinea.
Cherif, ha detto: “Il film è molto bello, perché racconta benissimo quello che succede in Senegal: le condizioni di vita degli abitanti, il desiderio di giungere in Europa alla ricerca di quel benessere che vediamo nei video su Internet, la voglia di fuggire per un futuro diverso, migliore. Il film, però, mi ha reso anche molto triste, perché ha fatto riaffiorare nella mia mente numerosi ricordi brutti che avevo accantonato: ad esempio quando ho lavorato come muratore per accumulare il denaro necessario per partire o anche quando sono arrivato a Tripoli e ho dovuto salutare un mio caro amico, perché siamo stati destinati a due imbarcazioni diverse. Non immaginavo che quella sarebbe stata l’ultima volta che lo avrei visto! La sua barca, infatti, è affondata e lui è morto annegato. Spesso penso a cosa mi sarebbe successo, se avessi preso io la sua barca! Questo pensiero mi ha fatto nuovamente piangere, perché giocarsi così la vita è doloroso, ma per lui e anche per me è stato inevitabile. Molti credono che gli immigrati vengano qui con la voglia di non fare niente. Questo non è vero. Come potrebbe un ragazzo adolescente rischiare la vita spinto solo dal desiderio di non volere far niente, di non voler lavorare?! La verità è che si preferisce rischiare la morte pur di realizzare la propria felicità. Quando sono venuto in Italia, nel 2015, avevo perso mia madre e non avevo più punti di riferimento. Sono arrivato su un gommone che avevo solo 17 anni ed ero molto spaventato. In questi anni ho studiato duramente per prendere il Diploma di Terza Media e ora sto lavorando. Il mio obiettivo è conseguire il Diploma di Maturità come metalmeccanico, così da poter tornare nella mia patria con abilità e competenze che mi permettano di trovare un lavoro regolare e ben retribuito. In tal modo potrei formare una famiglia tutta mia nella terra in cui sono nato”.
Dello stesso avviso anche Lamine: “Vedere questo film mi ha turbato profondamente, perché mi ha riportato alla mente alcuni ricordi del passato. Quando ho deciso di lasciare la Guinea, avevo 16 anni, proprio come il protagonista del film. Mio padre era – e continua ad essere – l’unico della famiglia con un lavoro. Io volevo contribuire a dare una mano a livello economico ai miei familiari; quindi, nonostante la paura del viaggio e di quello che sarebbe potuto accadere, ho deciso di tentare. Tante sono le situazioni che ho sperimentato nella mia vita e che ho ritrovato nel lungometraggio. In particolare, però, ho ripensato al lungo e travagliato viaggio che ho fatto per superare il deserto del Sahara; ma, mentre nella finzione cinematografica alla fine i due cugini si ricongiungono, al contrario io ho perduto un amico che non ho mai più ritrovato. Da allora sono trascorsi sette anni, in cui ho conseguito il Diploma di Terza Media e poi ho iniziato a lavorare. Il mio sogno è continuare a lavorare per aiutare la mia famiglia e, appena sarò pronto economicamente, tornerò in Guinea. Non so se costruirò la mia famiglia qui in Italia o in Guinea, ma sicuramente tornerò in Africa per rivedere i miei familiari. L’unica cosa certa è che vorrei essere felice”.
Chissà se, dopo la visione di questo film, ci sarà più facile ritrovare negli occhi di Cherif e Lamine gli occhi di Seydu? Chissà se, guardando i loro volti, penseremo non tanto all’ennesimo immigrato da sfamare, bensì ad un altro giovane che sta cercando la sua felicità? Proprio come i nostri figli?
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Allora le frontiere a cosa servono?
A dividere i nostri cuori a rendere scure le nostre anime