DIOCESI – Proseguiamo la serie di interviste ai sacerdoti della Diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto con don Guido Coccia, che attualmente svolge il suo servizio pastorale presso la Parrocchia San Benedetto Martire di San Benedetto del Tronto che proprio in questi giorni festeggia il suo santo patrono.
Cosa si aspetta dal Sinodo che è in corso? A quali cambiamenti siamo chiamati come Chiesa?
Credo che il Sinodo ci stia orientando a tornare alle origini, alle prime comunità cristiane, in cui non c’erano un sacerdote e dei collaboratori, bensì gruppi di cristiani che insieme si assumevano la responsabilità di annunciare al mondo la Lieta Notizia, testimoniando la loro fede attraverso l’annuncio e l’esperienza di vita. Il Sinodo in tal senso sta facendo bene, in quanto sta spingendo tutta la Chiesa verso la corresponsabilità. Quando dico tutta la Chiesa, intendo proprio tutti i cristiani: preti, religiosi, laici. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, ci chiama a questa condivisione, a questa complicità, a questa comunione. Mi pare che siamo già sulla buona strada, ma occorre fare molto di più: è necessario spiegare le ragioni per le quali i laici sono così importanti ed è anche fondamentale far comprendere a tutti, sacerdoti e laici, che questi ultimi non siano chiamati solo a gestire la parrocchia logisticamente, burocraticamente ed economicamente, ma anche ad occuparsi della fede della comunità. Questo è il vero cambiamento che ci aspetta!
Perché un giovane oggi dovrebbe scegliere di farsi prete?
In questo momento storico non credo sia importante scegliere di farsi prete, bensì di farsi cristiano. È importante scegliere Cristo. Da lì nasce tutto. Da lì nascono le varie espressioni di vocazione: quella di essere prete, ma anche quella di essere sposo, genitore. Oggi mancano non solo le vocazioni sacerdotali, ma anche quelle alla vita matrimoniale e, prima ancora, mancano le vocazioni alla vita. Già questo è un segnale: essere cristiani infatti significa essere aperti alla vita. Vale quindi anche il contrario: se non siamo aperti alla vita, non siamo cristiani. Come possiamo dunque essere preti? Siamo chiamati a tornare alle basi, a chiederci se siamo pronti a prendere un impegno, ad essere sposo o sposa, ad essere aperti alla vita, a scegliere un lavoro e portarlo a termine, ad essere fedeli a quello che siamo e a quello che abbiamo scelto.
Vorrei inoltre lanciare anche un ulteriore spunto di riflessione. Non è vero che nel mondo ci sia una crisi di vocazioni sacerdotali. Ci sono molti nuovi preti in America Latina, in Africa ed in Asia. I preti mancano soprattutto in Europa e in America del nord, ovvero nei paesi più industrializzati, dove si vive un discreto benessere economico e non si pensa alla dimensione spirituale.
Quando, come e perché lei ha scelto di farsi prete?
La mia storia di cristiano nasce nella parrocchia di San Filippo Neri, durante il periodo di guida pastorale di don Gabriele Paoloni. Ho vissuto quindi tutta la mia giovinezza secondo uno stile di Chiesa sempre attiva e in movimento, fatta di gruppi, associazioni, esperienze comunitarie sia estive che invernali. Una Chiesa viva, fatta anche di molti sacerdoti che si sono avvicendati come viceparroci o che comunque provenivano da quella parrocchia: don Francesco Ciabattoni, don Nicola Spinozzi, don Lanfranco Iachetti, don Andrea Spinozzi, don Alfredo Rosati, don Ulderico Ceroni, don Patrizio Spina. La mia formazione è sempre stata votata al mondo giovanile. Per molti anni sono stato catechista, per circa cinque anni ho seguito anche il cammino neocatecumenale e ho fatto parte anche di associazioni diverse. Questa formazione, che possiamo definire pluralista, mi ha fatto capire che c’è tanto di buono in ciascun gruppo che la Chiesa nei secoli ha costituito e che, sebbene ci siano differenze di metodo o di struttura o di strumenti, tutti possiamo camminare insieme, in comunione, nella grazia di Cristo.
Posso dire, con il senno di ora, che la mia vocazione all’epoca probabilmente fosse già iniziata, ma ancora non ne avevo preso consapevolezza. Ci sono stati alcuni momenti successivi che mi hanno aperto gli occhi ed il cuore. Partiamo dal primo. Mentre seguivo in parrocchia il mio cammino di cristiano, con alti e bassi come tutti, vivevo anche la mia vita di giovane ragazzo come la maggior parte dei miei coetanei, prima come studente presso l’Ipsia di San Benedetto Del Tronto, poi come lavoratore presso un’azienda della zona. Per un periodo ho anche frequentato una ragazza. Poi, un giorno, all’improvviso, mia madre ha scoperto di avere un cancro e questo ha costretto tutti noi a ripensare totalmente le priorità della vita e anche l’approccio alla malattia: in maniera naturale, senza imposizioni o pressioni, ci è venuto naturale intensificare la preghiera; inoltre, dopo un primo momento di confusione e rabbia, non ci siamo intestarditi a chiederci perché fosse capitato proprio a noi, bensì abbiamo iniziato a chiederci come accogliere quella malattia e ad affidarci al Signore. Anche se può sembrare strano, per me quello è stato un bel periodo: ho imparato a chiedere al Signore di aiutarmi ad accogliere la Sua volontà.
Il secondo evento che mi ha fatto riflettere parecchio è stata la rottura con la mia ragazza di allora, avvenuta tra l’altro in maniera proprio inaspettata, a seguito di una bellissima giornata trascorsa insieme. Quando le ho chiesto una spiegazione, lei mi ha detto che aveva seguito il mio consiglio di raccontare i suoi dubbi ad un sacerdote, il quale, di fronte alla sua presa di coscienza di non amarmi più, le aveva suggerito di lasciarmi. Anche questo l’ho preso un po’ come un segno che mi spingeva verso la vita sacerdotale.
Il terzo momento importante che ho vissuto verso la mia vocazione è avvenuto durante la Giornata Mondiale della Gioventù a Colonia, dove posso dire di aver conosciuto davvero Cristo. A volte succede di conoscere da tempo una persona, ma poi di vederla all’improvviso sotto un’altra luce, come se fosse per la prima volta. Per me è stato così. In Germania ho capito che il mio cammino doveva essere più forte. Ricordo le parole del Papa che ha affermato che uno non può dirsi di essere veramente un buon cristiano se non esprime gioia al mondo e se non ha un costante contatto con la Parola di Dio. Per quanto riguarda il primo aspetto, ero sicuro di possedere quella gioia. Ricordo, infatti, che in quel periodo così nefasto, molti amici mi chiedevano come mai fossi così sereno e felice, nonostante mia madre fosse malata e la ragazza mi avesse lasciato. La parte sulla quale invece avrei dovuto lavorare di più per essere un buon cristiano era, senza dubbio, l’ascolto della Parola. Allora, una volta tornato in Italia, ho preso con me stesso l’impegno di andare a Messa ogni giorno. Ricordo di averlo riferito anche a don Gabriele, il quale mi ha detto: “Bravo! Prega, prega!”.
Qualche mese dopo è capitato un fatto che mi ha segnato definitivamente. Ho sbagliato un lavoro e il mio capo mi ha fatto notare che quello che stavo facendo forse non era il lavoro giusto per me. Non ho preso quelle parole come un semplice rimprovero, bensì come un’occasione per ripensare alla mia vita. Mi sono messo a riflettere su quale fosse la cosa che veramente mi rendeva felice e il mio pensiero tornava sempre ai momenti trascorsi in parrocchia a fare catechismo ai ragazzi o al tempo passato con i malati quando andavo a trovarli.
Avevo 31 anni e ho capito in quel momento che in cuor mio avevo già deciso. Sono andato nell’ufficio di don Nicola Spinozzi, che all’epoca era diacono, e gli ho chiesto come mai, secondo lui, don Gabriele non mi dicesse nulla. In genere i sacerdoti, quando vedono un giovane così attivo in parrocchia, un pensierino su una loro possibile vocazione ce lo fanno, magari buttando lì una domanda anche a mo’ di battuta; invece don Gabriele no! Il nulla! Don Nicola mi ha fatto una semplice domanda: “Ma in seminario chi dovrebbe entrarci? Tu o don Gabriele?! Se vuoi, bussa alla sua porta!”. Ci ho riflettuto un secondo soltanto, mi sono alzato dalla sedia, ho bussato alla porta accanto dove stava don Gabriele e gli ho detto: “Ma, se io volessi andare in seminario, tu cosa diresti?”. E don Gabriele mi ha risposto: “Oh! Finalmente hai deciso!”. Da queste sue parole ho capito che mi stava aspettando.
Quando è stato ordinato e quali sono stati gli incarichi pastorali che ha svolto in questi lunghi anni?
Ho iniziato il mio percorso nelle parrocchie otto mesi dopo essere entrato in Seminario a Fermo. La prima esperienza è stata nella parrocchia San Niccolò di Acquaviva Picena, mentre c’erano il parroco don Angelo Palmioli e poi don Dino Pirri. Successivamente sono stato a Ripatransone presso la parrocchia Santi Gregorio Magno e Niccolò con don Domenico Vitelli e poi sono tornato a casa, nella mia parrocchia di origine, San Filippo Neri a San Benedetto del Tronto. Una volta divenuto diacono, sono andato a fare servizio nella parrocchia di Cristo Re, mentre era parroco don Pio Costanzo. Sono state tutte esperienze molto forti ed altamente formative. Una volta ordinato, il 24 aprile del 2012, sono stato trasferito nella parrocchia di San Pio V a Grottammare come viceparroco, dove sono rimasto per ben quattro anni, prima con don Giovanni Flammini e poi con don Giorgio Carini. Successivamente sono stato nominato amministratore parrocchiale presso le parrocchie Santa Maria Assunta di Cossignano e Santa Maria Ausiliatrice al Trivio di Ripatransone, dove però sono rimasto solo pochi mesi prima di essere destinato alla parrocchia di San Benedetto Martire qui a San Benedetto del Tronto, dove ancora presto il mio servizio pastorale.
Perché un giovane oggi dovrebbe scegliere di seguire Gesù e la Chiesa? Cosa possiamo fare per avvicinare sempre più giovani?
È necessario vivere davvero il tempo che stiamo vivendo! Il giovane in genere è attratto da due aspetti: prima di tutto dal bello e poi da chi sa guardare avanti. Ecco allora che, per quanto riguarda il primo aspetto, siamo invitati a testimoniare la bellezza di essere cristiani. Come? Intanto a livello liturgico. Possiamo, ad esempio, curare maggiormente l’aspetto estetico delle nostre chiese, tenendole pulite e ben addobbate con fiori e piante. Poi possiamo scegliere per le corali parrocchiali un repertorio meno classico, più attuale, più vivo, con suoni e melodie adatte al nostro tempo. A volte noi sacerdoti notiamo che ai campi scuola i giovani cantano; quando rientriamo in parrocchia, però, non cantano più! Poi, oltre a questo, la bellezza va testimoniata con la vita, quindi con le parole che diciamo e con i comportamenti che teniamo. Oggi la voce del prete non è che una delle tante voci del mondo e spesso è anche meno autorevole rispetto ad altre. Per questo motivo la voce che viene dai laici, dalle famiglie è molto importante ed, a volte, anche più ascoltata di quella che viene dal pulpito. In tal senso siamo chiamati ad essere tutti più credibili, nelle parole e delle azioni.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, ovvero il fatto che i giovani siano attratti da chi è proiettato al futuro, chiediamoci se, come Chiesa, sappiamo guardare avanti. Cosa stiamo offrendo alle nuove generazioni? Di fronte ad un mondo senza lavoro, come può un giovane provare il desiderio e la volontà di impegnarsi nel lavoro? Di fronte ad un mondo in cui le coppie si separano con sempre maggiore frequenza, come può un giovane provare il desiderio e la forza di impegnarsi in una relazione? Di fronte ad una Chiesa che a volte non dà buona testimonianza, come può un giovane provare il desiderio e la forza di impegnarsi in parrocchia?
Di fronte a tutti questi stimoli, dunque, siamo chiamati a vivere pienamente la nostra umanità, a rimettere al centro di ogni aspetto della vita l’essere umano, con le sue fragilità sì, ma anche con le sue grandi potenzialità. Solo così riusciremo ad essere dei veri cristiani. Credibili. Aperti alla vita. Capaci di impegnarci (come sposo, sposa, prete, suora, lavoratore). Guidati dalla Speranza, ovvero mostrandoci non disperati di fronte alle prove della vita, bensì vivendo con fiducia l’attesa del futuro.