X

Rubrica Immigrazione: Blocchi navali, detenzione e pratiche di ingresso estenuanti possono essere una risposta all’Immigrazione?

Rubrica Immigrazione di Ana Fron

Blocchi navali, detenzione e pratiche di ingresso estenuanti possono essere una risposta all’Immigrazione?

Il Decreto legge del 14 settembre 2023, sulla garanzia finanziaria degli stranieri che arrivano in Italia senza un visto d’ingresso è una dimostrazione di forza contro il flusso migratorio; un deterrente all’immigrazione clandestina. Gli stranieri che entrano in Italia devono pagare allo stato una somma di 4.938 euro, in caso contrario si procede con la “detenzione” in un centro di permanenza per il rimpatrio, fino a 18 mesi.

Si pretendono soldi da chi non ne ha; da gente che lascia il proprio paese proprio perché versa in povertà.

La legge è un déjà-vu. Mentre le situazioni politiche economiche e sociali internazionali hanno uno sviluppo nuovo, le leggi sull’immigrazione pare che si rifacciano ai soliti temi: blocchi navali, detenzione ed espulsioni, pratiche di ingresso impossibili. Tutte inefficaci e inefficienti che non hanno mai scoraggiato nessuno. Lo affermo con cognizione di causa perché in passato le ho sperimentate in prima persona.

Correvano gli anni ’90 ed io, giovane ragazza, ero inscritta ad una Facoltà di Scienze della Comunicazione. Ero venuta dalla Romania in un momento in cui il paese non era ancora entrato nella Comunità Europea. Ero riuscita tra mille difficoltà ad ottenere un visto per lo studio, che veniva rilasciato anno per anno. Dunque, per la durata del mio corso quinquennale, una volta all’anno, ne richiedevo il rinnovo. Ma ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno era la prova personale della vita, il test che ti portava a capire se eri una persona risoluta oppure no. Il lavoro part time che avevo e lo studio erano “cose da bambini” per me, e non perché sono un “cervello brillante” ma solo perché la legge sull’immigrazione poneva tanti intralci nelle pratiche da assolvere che risultavano ben più difficili di tutto il resto. Vado a memoria e racconto in cosa consisteva la pratica.

Il mio status legale in Italia era quello di studente dunque, per primo, dovevo presentare un certificato di iscrizione e frequenza che il mio ateneo rilasciava senza problemi; essendo in regola sia con la frequenza che con gli esami.

Per secondo, in ordine di rilevanza, dovevo interpellare il proprietario dell’appartamento per la dichiarazione di ospitalità o di affitto. Per questo avevo più difficoltà: il mio locatore, oltre che per riscuotere i pagamenti, si vedeva di rado. Telefonate su telefonate per pregarlo di rilasciare tale dichiarazione.

Fatto anche questo, bisognava (un periodo) dimostrare di avere una certa somma di denaro in banca (all’incirca 20.000.000 lire), che la maggior parte di noi studenti non possedeva, ma risolvevamo facendo la colletta provvisoria tra noi. Gli stessi soldi “circolavano” in tutti i nostri conti, altrimenti spogli.

Fotocopie, passaporto, fotografie alla mano e finalmente si andava al commissariato della zona di residenza. Il mio era quello di Montesacro.

Mentre oggi si gestiscono gli ingressi con una moderna tecnologia come touch screen o semplicemente con i ticket, ai miei tempi ci si metteva in fila. Una fila che costeggiava all’esterno il recinto del commissariato. Scomodo per noi e brutto da vedere per tutti gli altri. Ore e ore sul marciapiede, sotto il sole infinito dell’estate romana, fino a quando arrivavi in testa alla coda e ti si diceva “per oggi basta! È ora di chiusura!”

E tu, avvilito, ritornavi il giorno dopo, oppure un altro ancora, saltando le lezioni oppure gli impegni lavorativi, con tutti gli effetti collaterali.

Ma la fatica fisica per noi era trascurabile. Il problema si poneva quando, qualche volta, non riuscivi a mettere nel fascicolo tutti i documenti richiesti e allora sopraggiungeva l’ansia del possibile diniego. A maggior ragione, quando eri al 3° o al 4° anno e non avresti voluto interrompere gli studi. La possibilità della rinuncia dunque non era contemplata e, questa condizione ti rendeva vulnerabile. Mentre spiegavi a voce che “non hai avuto tempo di passare in banca a prendere l’estratto conto” capitava che, qualche funzionario pubblico mentre ti ripeteva che non si poteva fare senza, ti chiedesse il numero di telefono. Tra le ragazze si parlava di tale pratica, ma anche di come si poteva eludere. E si eludeva perché, come ho già detto, il permesso di soggiorno era la prova di vita; della propria capacità di risolverti.

Come negli anni novanta anche oggi il solo contrasto all’immigrazione non risolve nulla. Le persone continueranno ad arrivare. Dobbiamo necessariamente trovare un approccio diverso.

Trasformiamo la pratica degli arrivi caotici in una pratica ordinata. Accettiamo di proteggere coloro che sfuggono dalle guerre. Per loro non c’è da discutere. L’accoglienza, anche temporanea è l’unica soluzione.

Diamo anche ai ragazzi che vogliono venire in Europa per lavorare una possibilità. Se sono tanti, come ci conviene a volte dichiarare, potremmo dare a loro un tempo limitato. Faccio per dire: dieci anni a persona.

D’altronde ci sono tanti ragazzi che hanno l’obiettivo di ritornare al proprio paese dopo aver guadagnato qualcosa. Avranno imparato un mestiere, una lingua ecc., che potranno spendere al ritorno a casa.

Infine, agli stranieri che rimangono, garantiamo strumenti per una piena integrazione, che non vuol dire diventare tutti uguali. Rispettiamo le loro religioni, gli usi e i costumi che non scalfiscano i diritti umani universali. Accertiamoci che abbiano un trattamento ugualitario nella società, che diventino tutti rispettosi delle leggi locali e partecipi alla costruzione del paese.

In seguito, avremmo sempre buono risultati o almeno potremo di re “ci abbiamo provato”.

Redazione:

View Comments (2)