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Da New York, un rabbino cerca di liberare il cugino rapito da Hamas: “Viviamo in un mondo fragile”

Maddalena Maltese

(da New York) Riportare a casa Hersh. E insieme a lui tutti gli ostaggi che da sabato scorso sono nelle mani di Hamas e di cui non si ha nessuna notizia. Gela gli animi la comunicazione del gruppo militare filopalestinese che il 7 ottobre è penetrato in territorio israeliano provocando morte, distruzione assieme ad una controffensiva di bombardardamenti da parte di Israele: 13 degli ostaggi sono morti, a seguito delle bombe sganciate su Gaza. Il rabbino Burton L. Visotzky, professore di Midrash ed emerito di studi interreligiosi al Seminario teologico ebraico d’america di New York, non intende arrendersi. Hersh Goldberg-Polin è suo cugino: un giovane di 23 anni, uscito di casa venerdì scorso per celebrare la fine delle lunghe settimane festività ebraiche e lo Shabbat, ma mai rientrato a casa. Di questo giovane di 23 anni, appena compiuti restano solo due messaggi inviati alle 8.11 del mattino di sabato ai genitori: “Vi voglio bene” e “Vi chiedo scusa”. E resta una foto sui social che lo vede ammassato dentro un rifugio. Hersh era uno dei giovani partecipanti al festival musicale Supernova Sukkot Gathering, vicino il kibuz Re’im e preso d’assalto dai militanti di Hamas. Burton sente ogni giorno i genitori, impegnati a rilasciare interviste a quanti più media possibili per riuscire a sapere cosa ne è di Hersh.

Il giovane, secondo la ricostruzione della famiglia, quando si è reso conto dell’assalto ha cercato di fuggire e insieme agli amici si sono precipitati dentro un bunker che i miliziani di Hamas hanno assalito lanciando un gran numero di granate, che il migliore amico di Hersh ha provato a buttare fuori, ma è morto proprio nel tentativo di salvare gli altri.

“Ad Hersh è saltato il braccio. Ha cercato di fermare il sangue con un improvvisato laccio emostatico e quando i guerriglieri di Hamas sono entrati nel rifugio, chiedendo ai sopravvissuti di alzarsi e camminare, anche lui l’ha fatto ed è stato catturato e preso in ostaggio”. La voce del rabbino è rotta, mentre racconta il dramma che la sua famiglia sta vivendo. L’ultimo segnale del telefonino del giovane è stato captato dalla polizia al confine con Gaza. I genitori, dopo aver ricevuto i due messaggi, hanno cercato notizie sui social, hanno contattato gli amici sopravvissuti perché si sono finti morti e alla fine hanno capito che tra gli oltre 100 ostaggi trattenuti nella Striscia c’era anche il loro figlio.

Hersh è americano e israeliano: è nato infatti a Chicago e Burton ha ancora presenti le dispute sul campionato di baseball e le tante risate condivise. “Ciò che è successo è stato così terribile, così oltre ogni limite, così barbaro, così semplicemente terrificante” mi dice Burton, esprimendo parole di condanna assoluta per Hamas e pieno supporto a Israele, “anche se non sempre approviamo quello che fa”, ma in questo momento le sue speranze di riportare a casa Hersh sono tutte lì e sente che bisogna restare uniti.

Burton ha chiamato i suoi amici cattolici e quelli musulmani e racconta che “il cardinale di New York, Timothy Dolan, sta mobilitando i suoi contatti e i miei colleghi musulmani hanno contattato esponenti della Mezzaluna rossa pur di avere qualche informazione e qualche forma di assistenza, viste le ferite di mio cugino, ma anche di tutti gli altri ostaggi che sono sicuro hanno bisogno di cure”.

Burton e la moglie non riescono a guardare la tv in questi giorni concitati. Lo fa invece il padre centenario che vive con loro. “Piange raccontandoci la brutalità e la ferocia di Hamas trasmessa dai notiziari”, racconta, aggiungendo che tutto questo orrore ha “effetti terrificanti su ciò che è il nostro essere più profondo, il nostro essere umani e civilizzati”.
Il rabbino Visotzky venerdì era a fianco dell’ambasciatore israeliano alle Nazioni Unite, Gilad Erdan, “per raccontare di Hersh in modo che capiscano che si tratta di persone reali. Questo non è un generico cittadino statunitense, ma è semplicemente un essere umano meraviglioso, adorabile e possiamo solo pregare che ritorni a casa e con lui tutti gli altri”.
Riguardo all’imminente attacco di Israele e ai bombardamenti, Burton è molto chiaro: “Ogni vita è importante e non fa differenza se si tratta di una vita ebrea o di una vita palestinese. Allo stesso tempo Hamas non può continuare a fare quello che ha fatto, non possono farla franca perché lo rifaranno ancora”. Il rabbino ha ancora la voce spezzata mentre dice: “Prego che le scelte siano misurate e che si capisca che questo non è un attacco contro i palestinesi: loro non sono i nemici. Qui il nemico comune è Hamas”. Burton spera che si giunga ad un accordo, dopo questi giorni crudeli in cui va ripristinato una sorta di ordine. “Nella mia fantasia mi auguro che se anche Israele entrasse in guerra contro Hamas, si possa raggiungere un accordo con l’Autorità Palestinese in modo che palestinesi e israeliani possano vivere insieme in pace”, è l’auspicio del rabbino che ricorda: “Viviamo in un mondo fragile, dove dobbiamo andare avanti e cercare la gioia nel quotidiano. La mia sarà piena quando tornerò a dibattere con Hersh, a ridere con lui e a parlare ancora di baseball”.

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