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La storia di Mohammad, dal Pakistan ad Acquaviva Picena

Di Ana Fron

ACQUAVIVA PICENA – Ogni storia di vita ha il proprio fascino dell’originalità; a maggior ragione questa caratteristica fuoriesce da un racconto di vita migratoria perché, questo movimento umano è impregnato di vicende di autentica sofferenza e gioia; di lacrime e resilienza, per culminare in un epilogo di riscatto.

Al sogno di libertà e di pace, di sicurezza e di autodeterminazione aspira anche Mohammad quando, dieci anni fa, lascia il Pakistan per arrivare in Italia.

Come è nata l’idea di lasciare il Pakistan?
“Ho maturato l’idea di andarmene via nel tempo; non a cuor leggero. Sono stato costretto per le condizioni di vita insostenibili che c’erano in Pakistan.”

Cosa succedeva nel tuo paese?
“Il mio paese versava, ed è ancora così oggi, in condizioni di insicurezza dovute al terrorismo. I Talebani hanno il potere e sono loro che decidono l’andamento della vita socio politico economica, con tutto quello che ne consegue.

Quanti anni avevi quando hai lasciato il Pakistan?
“Avevo 29 anni.”

Sei partito da solo?
“Si. I miei familiari, mamma e fratelli sono rimasti in Pakistan”

Ti va di raccontarci il viaggio?
“Si. Per viaggiare, fortunatamente ho potuto prendere un aereo, dunque, l’arrivo in Italia è stato veloce e comodo ma, una volta sistemato nel Centro di Accoglienza Straordinario (all’epoca) di Gorizia, in quanto richiedente protezione internazionale, ho vissuto un incubo che preferisco non ricordare.”

Cosa succedeva in quel centro?
Il centro era sovraffollato. Al posto di 150 persone della capienza ufficiale eravamo all’incirca 300. Tante persone di tante nazionalità, con problemi diversi dei quali non si occupava nessuno. Eravamo in balia di noi stessi. L’igiene inesistente. Non potevi fare un po’ di sport, né studiare. Non potevi comunicare con la famiglia perché non avevi telefonino né internet. Niente! Eravamo sospesi in uno stato d’ansia senza fine.

Ti sei pentito di essere partito da casa tua?
Pentito no perché cercavo la sicurezza fisica che da noi non c’era, ma molto deluso, per l’accoglienza inumana che avevo trovato a Gorizia.

A Gorizia sei riuscito almeno a fare amicizia con altre persone?
Si. Ho incontrato dei connazionali con i quali mi sono trovato bene.

Poi? Per quanto tempo sei rimasto nel centro di Gorizia?
Sono rimasto per qualche mese poi, sono andato via in altri paesi europei, per cercare lavoro. Sono rimasto per un po’ in Francia e in Norvegia ma senza documenti era difficile e sono tornato in Italia che rappresentava il primo paese di approdo per me. In Italia dovevo continuare il mio percorso di richiedente asilo per ottenere i documenti.

Sei tornato a Gorizia?
“No. Tramite un nuovo conoscente, ho saputo del centro S.P.R.A.R. di Grottammare e ho fatto richiesta per essere ammesso. In seguito, sono stato accettato e sono rimasto in questo progetto per sei mesi.”

Come è stata la tua vita nello S.P.R.A.R.  di Grottammare?
“A Grottammare mi sono trovato bene, anche perché ho fatto un tirocinio per riqualificarmi e poter lavorare. Lavorando, con un contratto di lavoro in regola, ho ottenuto un permesso di soggiorno. Prima per un anno e dopo cinque anni ho ottenuto quello di lunga durata. “

Hai parlato di una riqualifica lavorativa. In Pakistan che studi hai fatto?
“Ho conseguito a Peshawar un Master in Letteratura e in Inghilterra un Master in business management ma qui in Italia ho dovuto rimboccarmi le maniche e fare di tutto pur di guadagnare qualcosa e di riuscire ad ottenere un permesso di soggiorno. Per noi stranieri il bisogno di sopravvivere implica due componenti interconnesse: quello dello stipendio/contratto e quello del documento di soggiorno; per avere l’uno ti serve l’altro e viceversa.”

Sei giovane, hai pensato di sfruttare nel tempo il tuo curriculum?
“Si certo. Oggi lavoro come operatore sociale e mediatore interculturale (ultimo diploma acquisito) per il Progetto SAI (ex SPRAR) a Porto San Giorgio e a Grottammare, gestito dalla cooperativa Nuova Ricerca Res di Fermo. Lavoro che mi soddisfa molto perché posso aiutare persone come me ad ambientarsi e avere un’accoglienza migliore.

Ma io ti ho conosciuto ad una mostra artistica dove esponevi alcuni dei tuoi quadri. Molto belli! In tutta questo marasma di tormenti hai anche voglia di dipingere?
“L’arte per me è un bisogno primario. Mi ha accompagnato nei momenti bui ma anche felici della mia vita. Amo da sempre dipingere e amo anche la musica. So anche suonare uno strumento.”

Quale strumento?
“È uno strumento a corde, tipico del Pakistan, che ho portato con me. Si chiama rabab. È come una chitarra ed è molto usato nel mio paese. Suono questo strumento popolare che mi tiene legato alle mie origini.

L’arte è cibo per l’anima per te, mi sembra di capire ma, cosa altro consideri importante per la vita degli immigrati, da suggerire ai nostri lettori?
“Le passioni sono necessarie per la vita ma mi piacerebbe fare capire, prima di tutto, l’importanza dell’accoglienza. A noi stranieri non servono assistenzialismo o tappeti distesi sui quali camminare all’arrivo. A noi serve empatia, solidarietà ed essere trattati senza discriminazioni.”

Ti sei sentito discriminato?
“Ti rispondo facendoti un paragone tra l’accoglienza fatta dagli europei agli ucraini. Sono stati ricevuti tutti coloro che sono partiti dall’Ucraina, all’istante; e non soltanto dai governi ma dalla società. La gente li ha accolti con senso del dovere. Perché non possiamo avere anche noi, quegli del sud del mondo, lo stesso trattamento? Siamo anche noi esseri umani, bisognosi di aiuto. Non lasciamo la nostra casa per capriccio; anche perché, lasciare il luogo natale implica adattamento in altre realtà sociali e sofferenze di vario tipo; partiamo per un bisogno di sopravvivenza.

All’interrogativo di Mohamed possiamo riflettere tutti.

Sentiamo giustificazioni di ogni tipo sulla mancata accoglienza o sull’accoglienza approssimativa, degli immigrati che chiedono aiuto. La verità (a mio avviso) è che siamo diventati indifferenti alle sofferenze degli altri. Non ci informiamo sulle necessità degli uomini; di tutti gli uomini. Otteniamo le informazioni dai media e le prendiamo sempre per buone, senza lo spirito critico o un’analisi di chi è veramente interessato alla sorte altrui.

Abbiamo bisogno di acquisire il senso di solidarietà verso gli immigrati ed il loro duro “viaggio”.

Cosa possiamo fare allora?

Ripartire dalle nuove generazioni. Entrare nelle scuole per formare in modo giusto le coscienze.

Gli studiosi della pedagogia parlano dell’esigenza di portare a scuola la pedagogia interculturale, che affronta il senso della solidarietà. I ragazzi devono afferrare fin da piccoli un senso del convivere con valori interculturali, dell’accoglienza. “Educare ed educarsi all’interculturalità è un’esigenza irrinunciabile non soltanto per gli alunni (gli immigrati, le minoranze etniche) anzi, costituisce l’unica possibile e più efficace risposta alla complessità e alla pluralità delle esperienze con cui ogni persona è chiamata a confrontarsi.” La pedagogia interculturale, Carolina M. Scaglioso, Università per Stranieri di Siena

Imparare l’altruismo si può e si deve. Solo così possiamo riuscire a crescere come persone; acquisire la libertà ed il rispetto, al fine di costruire una società giusta e pacifica.