“Ci sono pesi che ci portiamo addosso e che ci opprimono: il rimorso, l’odio, l’invidia, l’egoismo, la paura, le delusioni, gli errori, tutti sentimenti che ci impediscono di stare dritti. Si vive con il capo chino, costretti a guardare a terra, quella stessa terra di cui siamo impastati e che tante volte è l’origine e il motivo della nostra fragilità”, diventando “l’icona di una umanità ferita, segnata da tanta sofferenza, violenza e ingiustizia”, come quella “degli uomini e delle donne, dei vecchi e dei bambini di Israele e Palestina, di Ucraina e di tante altre regioni del mondo oppresse dalla violenza e dalla guerra”.
Lo ha detto, l’arcivescovo di Spoleto-Norcia, mons. Renato Boccardo, nell’omelia della messa celebrata a Norcia nel settimo anniversario del sisma. Ma nel dolore, ha osservato il presule, “è Dio che ci cerca, che guarda alla nostra sofferenza, alla nostra incapacità ad alzare lo sguardo: siamo cercati e amati da Lui prima ancora che ce ne accorgiamo. Il fondamento della fede, infatti, non risiede in una nostra capacità ma nella capacità liberante di Cristo nei confronti di quanti incontra”. C’è “un intreccio di sguardi: da una parte l’uomo guarda verso Dio nell’attesa di ricevere qualcosa; dall’altra Dio si volge verso di lui con quell’amore preveniente che risana ogni ferita. Questo reciproco sguardo diventa un incontro e genera una storia nuova”. Così “il terremoto del 2016 ci ha piegati, togliendoci le case e i luoghi di lavoro, privandoci di monumenti – maestosi o semplici – che raccontavano storie di vita e di fede e racchiudevano ed esprimevano l’identità delle popolazioni; ha generato una cesura tra passato e futuro”. Poi “la lentezza della ricostruzione, gli intoppi burocratici, le difficoltà nella ripresa lavorativa ed economica, la tragedia della pandemia, il lievitare dei prezzi delle materie prime: tanti fardelli gravosi che hanno acuito la fatica e motivato lo scoraggiamento”. Ma “abbiamo incontrato sguardi e mani che ci hanno progressivamente aiutato a ‘rimetterci in piedi’”: “Dopo gli elementi naturali, si sono scatenati anche la generosità, l’altruismo, la corsa a donare tempo, energie e professionalità, che hanno avvolto queste popolazioni come in un grande abbraccio. Dall’angosciante desolazione prodotta dal terremoto è sbocciata tanta solidarietà che, come la fioritura di Castelluccio, ha riempito di colore il grigiore della polvere dei crolli e delle macerie; e la sofferenza e la paura si sono stemperate nella speranza di un futuro che ancora potrà esserci e che permetterà di dire con il salmista: ‘Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia’ (cf Sal 30, 12)”.
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