SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Ancora una volta Papa Francesco ha ricordato l’ottimo servizio che la Marineria Sambenedettese opera ormai da quattro anni nell’ambito della cura del Creato, in particolare nel Mare Adriatico, ripulendolo dalla plastica e da tanti altri rifiuti.
Queste le parole del Pontefice durante l’intervista rilasciata al direttore del Tg1, Marco Chiocchi, e andata in onda mercoledì 1° novembre: “A me piace parlare dei pescatori di San Benedetto del Tronto. Bravi ragazzi! Sono venuti a trovarmi e a dirmi delle tante tonnellate di plastica che hanno preso in mare. Le prendono e non le rigettano in mare. Perdono soldi, ma quei rifiuti li riportano a terra per ripulire il mare“.
Cogliamo allora l’occasione per proseguire la nostra rubrica di interviste ai pescatori della nostra Diocesi, volta a conoscere la loro ricca storia e il pregevole servizio che offrono alla comunità. Un servizio encomiabile, sia in quanto gratuito, sia per l’impatto ecologico e sociale che ha la loro opera. Incontriamo oggi uno dei primi pescatori ad attuare questa attività di cura e custodia del Creato, Antonio Fanesi, 54 anni, sambenedettese doc da generazioni, sposato con Paola Mozzoni, da cui ha avuto un figlio, Nicola, oggi dodicenne.
Lei è da sempre amante del mare e comandante di pescherecci da quando aveva venticinque anni. Come è nato questo amore?
Ho ereditato l’amore per il mare dai miei nonni, in particolare il mio nonno materno, Nicola Palanca, che aveva un peschereccio in società con il cognato. L’imbarcazione si chiamava “Fiume Nilo”, in ricordo degli anni di prigionia trascorsi in Egitto in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Da piccolo, inoltre, abitavo in via Manzoni, a due passi dal porto, quindi spesso d’estate andavo al molo a vedere le barche che rientravano. Il loro andare e venire mi dava un forte senso di libertà, mi facevano pensare alla possibilità di viaggiare e andare lontano. Poi, quando avevo sette anni, mio padre, Nicola Fanesi, mi disse che aveva deciso insieme a mio zio, Nazzareno Rosetti, di costruire un nuovo peschereccio. Fu una delle prime imbarcazioni moderne e io ebbi la fortuna di assistere alla sua costruzione, passo dopo passo. Appena terminati i compiti, spesso mi recavo con mio padre al cantiere navale Ascolani per verificare lo stato di avanzamento dei lavori. Era un po’ come giocare con le costruzioni Lego, ma dal vivo! Rimasi molto affascinato dalle maestranze del cantiere che sapevano modellare il legno di quercia con grande sapienza. In particolare ricordo che il legno, dopo essere stato stagionato, veniva piegato con il vapore, lentamente, facendolo asciugare e poi ripetendo l’operazione più volte fino ad ottenere la curvatura desiderata. I tempi di costruzione furono lunghi, impiegarono circa due anni. Nel 1977 il peschereccio “Orca marina” fu varato.
Era una barca bellissima: lunga 28 metri, non era spartana, ma ben rifinita in ogni angolo; gli interni sembravano quelli di uno yacht, con alloggi spaziosi, una cucina e una sala; aveva il riscaldamento e molti altri confort per vivere in mare in maniera comoda e agiata. Io rimasi molto colpito dalla bellezza di questa imbarcazione, perché mio nonno mi aveva raccontato che lui da ragazzo, negli anni 20 del secolo scorso, si era imbarcato su una paranza (una barca da pesca a vela), in cui l’equipaggio dormiva sotto coperta, insieme al pescato, tutti ammassati, ad incrocio, come gli schiavi nell’antichità. In questa imbarcazione, a soli cinquant’anni di distanza dalla sua esperienza, le condizioni erano completamente cambiate. Ovviamente in meglio. Questo ancora di più aumentò il mio desiderio di seguire l’attività di famiglia, nella consapevolezza che le condizioni di lavoro sarebbero migliorate ancora. Nel 1981, durante l’estate, iniziai ad andare in mare con mio padre e mio zio, perché ero curioso di conoscere la vita di mare. Mio padre era il motorista dell’imbarcazione, mentre mio zio era il capitano. Io quindi ero sempre in plancia con mio zio, affascinato dalle varie attività di conduzione della nave, come tracciare la rotta, stare al timone, usare il radar.
Nonostante il mio interesse per il mare, però, terminata la scuola dell’obbligo, i miei genitori, in particolare mia madre, non assecondarono inizialmente il mio desiderio. Quindi mi iscrissi a Ragioneria, ma, dopo solo un anno, riuscii a convincerli del fatto che quella non sarebbe stata la mia strada e mi trasferii all’Ipsia. Purtroppo, però, quell’anno – il 1984 – la sezione di studi per divenire “Padrone Marittimo” qui a San Benedetto del Tronto non fu aperta per mancanza di iscritti; allora decisi di iscrivermi al corso di “Meccanico Navale”. Quando terminai gli studi ed iniziai a lavorare, era il 1987 e decisi di prendere anche il titolo di coperta, perché volevo fare il capitano.
Quando e come ha iniziato questo lavoro?
Ho iniziato subito, ovviamente con l’imbarcazione “Orca Marina” dei miei, ma ci tengo a precisare che non ho avuto sconti per il fatto che fossi il figlio dell’armatore, anzi forse in alcuni casi sono stato messo alla prova anche più di altri. All’epoca era la norma far fare una certa gavetta a tutti. Si iniziava con il fare il mozzo, lavando i piatti dell’equipaggio, stando in ghiacciaia, sotto alla stiva, a mettere le casse in ordine, a mettere sotto ghiaccio il pesce e a lavare una volta alla settimana la stiva. Quando il pranzo era pronto, io, che ero il più giovane, salivo in plancia con il mio piatto e mangiavo lì, così da consentire al capitano di mangiare nella saletta, quindi sul tavolino, da seduto. Era una forma di rispetto a cui tutti i più giovani dovevano conformarsi, sia per imparare il rispetto nei confronti degli adulti più esperti, sia per imparare a fare la guardia stando al timone, un’occasione preziosa per acquisire nuove competenze. In barca eravamo in cinque: il capitano, il motorista, tre marinai. Questi ultimi, oltre che curare le varie operazioni di pesca, dovevano saper fare anche altre cose: uno doveva saper rimacchiare anche le reti e in genere si trattava di un veterano, mentre i due più giovani come me ricoprivano altre mansioni, come ad esempio quella di cuoco. A conclusione dei quattro giorni di pesca, poi, tornando verso terra, mentre il capitano faceva la guardia, il resto dell’equipaggio faceva il lavaggio del ponte di coperta, ciascuno con il proprio compito: il motorista lavava il verricello salpacavi, quindi la parte meccanica del ponte di coperta; il cuoco lavava la cucina e la sala; i due marinai più giovani lavavano il ponte di coperta, le murate, il giro di poppa, le paratie. A me mio padre diede il compito di pulire, con una spugna, le murate, dalla coperta fino al bordo superiore, in ginocchio, facendo il giro da un lato all’altro! Insomma, il compito più faticoso, che però mi ha insegnato la pazienza, l’impegno, il sacrificio.
In quale occasione ha comandato un peschereccio per la prima volta? Come si è sentito?
Sulla mia prima imbarcazione sono rimasto per dieci anni, prima come marinaio semplice, poi come motorista ed infine come capitano. La gioia di comandare è stata grandissima, ma soprattutto perché avevo sperimentato anche tutti gli altri ruoli e conoscevo perfettamente i tempi, le modalità di lavoro e anche i sentimenti di tutti coloro che ricoprivano altri ruoli sulla nave.
Ricordo con molta commozione, quando, poco prima di diventare capitano, il mio comandante, Fiore Spina, all’improvviso mi disse di fare l’entrata al porto. Io già facevo la guardia da solo ed avevo già ottenuto il titolo di comandante, ma non avevo mai fatto l’entrata e l’uscita dal porto. Fiore mi disse: “Antonio, vieni qui, entra tu!”. Io, nonostante il timore e l’emozione, non mi tirai indietro. Quello fu il primo atto pratico di comando e lo ricordo con grande emozione, gratitudine e dolcezza. Fiore mi ha insegnato molte cose, senza che gli chiedessi nulla. Non era geloso di tramandare il suo sapere e le sue competenze. Gli sarò sempre grato per avermi messo al timone! Quando ora ho a che fare con un ragazzo giovane, che sta intraprendendo questo lavoro, mi ricordo di Fiore e, come lui, mi metto a spiegare tutto quello che so, con pazienza e generosità. Per me è stato un grande esempio di professionalità, umiltà e altruismo.
Quali sono i ricordi più belli di quegli anni?
L’esperienza con “Orca Marina” è stata fantastica. Sarò sempre grato a mio nonno, mio padre e mio zio per quello che mi hanno dato e insegnato. I miei ricordi più belli sono quelli trascorsi su quella nave.
Il primo che mi viene in mente riguarda la festa di Santa Maria della Marina. Quando arrivava il mese di luglio, mi preparavo con tutti i miei amici per imbarcarli durante la cerimonia di festeggiamento della Madonna. All’epoca si usciva in mare al mattino con tutta la famiglia e gli amici: noi uomini pescavamo, mentre le donne cucinavano a bordo. Poi mangiavamo a largo, facevano tuffi, gavettoni, ci divertivamo da morire! Al pomeriggio rientravamo, facevamo salire a bordo altre persone, visto che non c’erano limiti in tal senso e con la nostra imbarcazione seguivamo la barca che portava l’effigie della nostra Madonna. Ancora ho in mente la prima volta che la nostra barca ospitò l’immagine della Madonna. Era l’estate dopo il suo varo, nel luglio del 1978, ma io non potei partecipare perché avevo gli orecchioni. Ricordo di aver vissuto molto male quel momento, tanto era il desiderio di partecipare! Mi toccò aspettare il 1994 prima di poter avere questo onore.
Un altro ricordo, non bello come questo, ma certamente importante per la mia esperienza in mare, riguarda la prima tempesta. Pochi mesi dopo che ero divenuto comandante, nel marzo del 1995, una sera venne un piantone della Capitaneria di Porto per farci leggere un dispaccio della Protezione Civile che avvisava di un’imminente tempesta. Il tempo sembrava assolutamente non in linea con le previsioni: c’era bonaccia. Mio zio quasi si mise a ridere e ci fece partire. Così fecero anche altre imbarcazioni di San Benedetto del Tronto. Non lo avessimo mai fatto! Il giorno dopo, mentre eravamo in acque internazionali, vicino alla Croazia, iniziammo a vedere la perturbazione in arrivo e ci giunsero notizie tramite radio da parte dei nostri colleghi a nord che si lamentavano del peggioramento delle condizioni atmosferiche. Nel giro di un’ora il mare passò dalla bonaccia a forza 8; i venti viaggiavano a 40/50 nodi; una tempesta mai ricordata prima! Alcune imbarcazioni riuscirono a tornare al porto, ma noi non ci riuscimmo perché, dalla nostra posizione, avevamo il mare di traverso ed era pericoloso navigare con quel tipo di mare. Quindi decidemmo di andare verso l’isola di Sant’Andrè, a ridosso dell’isola, in attesa che il maltempo passasse. Ma, ad un certo punto, cambiai idea perché mi spaventai della grandezza delle onde che avrei dovuto affrontare di prua e quindi decisi di fare rotta verso Ortona, in modo da avere il mare di poppa, quindi a filo. Mio padre mi aveva sconsigliato questa soluzione, ma volli fare di testa mia, anche perché altre barche fecero lo stesso. Purtroppo non fu una buona decisione, perché a metà Adriatico il mare peggiorò notevolmente e divenne talmente grosso, che con il motore al minimo la barca faceva comunque 9 nodi! Ringraziando Dio, tutto andò bene. Non avevo ancora 26 anni e quella era la prima tempesta che affrontavo da solo come comandante. Ricordo che passai un’ora a pregare: tirai fuori il crocifisso che avevo al collo e mi sembrò che quell’ora non passasse mai! Una tempesta così non mi è mai più capitata, fino al 2012, mentre ero in pesca in Grecia, precisamente a Rodi.
Un altro momento bellissimo legato alla mia prima imbarcazione e che mi piace ricordare è avvenuto nell’estate del 1996, quando portai per la prima volta in barca la mia ragazza, Paola, che poi è diventata mia moglie. Aspettammo l’alba insieme. Avevo 27 anni ed avevo visto il sole sorgere già molte volte, ma quell’alba mi sembrò molto diversa.
Come e quando è iniziata l’esperienza di raccolta della plastica in mare?
Nel 2018, dopo due anni di comando a Pescara con i fratelli Camplone, sono tornato a San Benedetto al comando dell’imbarcazione “Umberto Padre” di Pietro Merlini. Quando sono arrivato, i due marinai Marco Aloisi, abruzzese di Martinsicuro, e Jibril Nguye, di origini senegalesi, già erano abituati a non gettare in mare i rifiuti, bensì a riportarli in porto. Io sono stato dapprima sorpreso: all’epoca infatti questa non era la prassi; al contrario la maggior parte dei mezzi che viaggiavano per mare rigettava in acqua i rifiuti. Quello che ora sembrerebbe una cosa scontata, fino a qualche anno fa non lo era. Anzi, devo dire che purtroppo, per la mia esperienza, non solo nelle Marche, ma in tutta Italia e anche all’estero, non c’è mai stata una grande cultura ecologica e del riciclo, soprattutto in mare. Nonostante quella non fosse una pratica consueta, ho comunque proseguito in quella direzione, riconoscendone i benefici per il nostro mare.
L’anno successivo, nel 2019, la Marineria Sambenedettese ha aderito al progetto “Clean Sea Life”, finanziato dal programma Life dell’Unione Europea, che aveva come obiettivo quello di accrescere l’attenzione del pubblico sui rifiuti marini e di promuoverne l’impegno attivo e costante, mettendo in campo una serie di attività che hanno coinvolto i lavoratori del mare in una straordinaria campagna di prevenzione e pulizia di coste e fondali. I pescatori che hanno aderito per un mese hanno dovuto portare i rifiuti a terra, così da farli monitorare e studiare agli esperti del progetto. Vista la quantità enorme di rifiuti accumulati in un mese, si è deciso di proseguire con questa attività virtuosa anche oltre il termine prestabilito. Nei mesi successivi è cresciuta sempre più in noi marinai una sensibilità ecologica: ci siamo resi conto che, inquinando le acque, il nostro pesce vivrebbe in un habitat non idoneo e che molti rifiuti, come le microplastiche, andrebbero a finire nella catena alimentare e il nostro pescato non sarebbe più di qualità. Pertanto riportare i rifiuti a terra è stato – e continua ad essere – un investimento importante che procura un duplice risultato: nell’immediato mantiene alta la qualità del pescato e nel lungo periodo permette al nostro mare di mantenere condizioni ottimali di benessere. Il mare non è una discarica e, così come un terreno va coltivato e curato, anche il mare va custodito con attenzione e cura.
Ad oggi, purtroppo, non ci sono leggi e controlli adeguati che impongano comportamenti e buone prassi ecologiche; mi sento quindi di stimolare le istituzioni ad intervenire in tal senso. Ma, oltre a questo, voglio dire a tutti i marinai di rispettare il mare, in quanto, non solo è la nostra fonte primaria di lavoro e quindi di guadagno, ma è anche un bene da tutelare e custodire per i nostri figli.
Il vostro impegno è molto apprezzato da Papa Francesco che vi ha voluto conoscere personalmente. Come è stato l’incontro con il Pontefice?
Molto emozionante per tutti noi! Siamo stati ricevuti alla stessa stregua di personalità famose, nella sala in cui spesso dalla tv avevamo visto le più disparate autorità nazionali e internazionali. Ci siamo sentiti importanti, perché l’incontro con Papa Francesco è stato un grande riconoscimento per quello che stavamo facendo. Ed è molto bello, ancora oggi, essere ricordati dal Santo Padre con parole di stima ed affetto.
Circa un mese fa, il 4 ottobre, ha incontrato gli studenti del Liceo Scientifico Rosetti in occasione della giornata Internazionale della Cura del Creato. Come ha vissuto quel momento?
Sono stato molto felice di partecipare a quell’incontro, perché ho avuto modo di stare a contatto con i giovani e questo lo ritengo un fatto molto stimolante perché permette di passare delle sapienze e delle conoscenze alle nuove generazioni.
Quel giorno in particolare ho parlato di cosa significhi essere un pescatore oggi, oltre che un comandante. Questo mi ha fatto molto piacere, perché negli ultimi anni sono pochi coloro che scelgono questo lavoro, in quanto i guadagni sono diminuiti; al contrario, io credo che sia bello far innamorare i ragazzi di questo lavoro. Ritengo infatti che, sebbene alcuni meccanismi e modalità vadano cambiati, tuttavia non si potrà smettere di svolgere del tutto questo lavoro, perché è una fonte di sostentamento al pari della terra. Ma, oltre a questo, il mare ha in sé una forza e un potenza che non possono essere ignorati.
In quell’occasione poi ho anche avuto modo di parlare di ecologia e di rispetto del Creato. Ho invitato tutti i ragazzi a non pensare di essere proprietari del mondo, ma solo inquilini di passaggio: per tale ragione siamo tutti chiamati ad accudirlo e rispettarlo. Ho detto loro di leggere, viaggiare e proteggere il mondo che ci circonda. Ho chiesto a quei giovani di essere altruisti, generosi e di rispettare il mondo e le sue creature, tutte. Ed è quello che chiedo anche ai lettori del giornale diocesano, ovvero di vivere in armonia con noi stessi, con le persone che incontriamo sulla nostra strada e con il Creato.
Per chiudere avrei voluto chiederle un messaggio da dare ai lettori, ma praticamente mi ha già risposto!
Se posso, allora, ne approfitto per dire due parole su cosa rappresenti il mare per me. In tutti questi anni ci sono stati momenti in cui mi è passata per la mente l’idea di abbandonare questa vita; però, nonostante le difficoltà, i sacrifici e anche i rischi che il mare porta con sé, a me il mare ha dato anche tanto: la libertà, l’indipendenza, la possibilità di costruirmi un futuro, la possibilità di conoscere il mondo e la possibilità di apprezzare il Creato in un modo in cui la maggior parte delle persone non può. Vuoi mettere vedere l’alba in mare aperto e vederla dalla riva?! E poi non è mai la stessa! Ogni alba ha un suo colore e un suo sapore. A volte anche di amarezza, tristezza, delusione, altre volte di intimità, gioia, speranza.
Ecco allora che mi sento di sposare pienamente i versi del poeta francese Charles Baudelaire: “Uomo libero, sempre tu amerai il mare!”