DIOCESI – Proseguiamo la serie di interviste ai sacerdoti della nostra Diocesi con don Anselmo Fulgenzi, che attualmente svolge il suo servizio pastorale presso l’Unità Pastorale Madre Teresa di Calcutta e Sacro Cuore di Martinsicuro ed è anche il Vicario foraneo della Vicaria San Giacomo della Marca.
Quando e come è avvenuta la sua vocazione?
I germogli della mia vocazione sono da ricercare innanzitutto negli anni della mia adolescenza e prima giovinezza, quando frequentavo quasi giornalmente il convento e la parrocchia dei Frati a Monteprandone. Successivamente è stato molto importante anche l’incontro che ho avuto con il movimento di Comunione e Liberazione a Bologna, durante gli studi universitari dal 1977 in poi: rimasi affascinato soprattutto dal modo – per me nuovo – di intendere e vivere il Cristianesimo attraverso il carisma, la proposta di don Luigi Giussani. Determinante inoltre è stata l’intensa vita di comunità e l’amicizia prima con gli universitari e in seguito con i tanti giovani e adulti del movimento di San Benedetto del Tronto. Sperimentavo così la bellezza di appartenere ad un luogo e a una compagnia che mi educavano a crescere nella fede e arricchivano la mia giovinezza.
A 21 anni, allora, mi decisi: parlai prima con don Armando Alessandrini, parroco della parrocchia San Niccolò di Bari in Monteprandone, e successivamente con il vescovo dell’epoca, Mons. Vincenzo Radicioni, il quale ad ottobre del 1979 mi fece entrare in Seminario a Fano. I miei parenti e i miei amici furono tutti molto contenti, ad eccezione di mio padre il quale, essendo io il primogenito e anche l’unico figlio maschio, aveva altre aspettative per me: mi vedeva ingegnere e con una bella famiglia, tanto che mi aveva già costruito un appartamento. Ricordo che per sette/otto mesi mi tolse il saluto; ma poi, constatando la mia determinazione, iniziò ad essere comprensivo, benevolo e paterno.
Quando e dove è stato ordinato?
All’epoca gli studi in Seminario duravano cinque anni, quindi subito, il 4 maggio del 1985, venni ordinato sacerdote da Mons. Giuseppe Chiaretti nella chiesa di San Niccolò di Bari in Monteprandone.
Quali sono stati gli incarichi pastorali che ha svolto in questi lunghi anni?
Prima ancora di divenire prete, dall’autunno del 1983, quando ero ancora prima seminarista e poi diacono, per volere del Vescovo, fui inserito nell’attività pastorale della comunità di Martinsicuro: all’epoca esisteva solo la parrocchia Sacro Cuore di Gesù. Nel 1985 fui nominato ufficialmente vicario parrocchiale, incarico che ricoprii fino ad agosto del 1999.
Dal 1999 fino al 2014 ci fu per me il periodo grottammarese: nel 1999 venni nominato parroco della parrocchia San Martino, incarico durato fino al 2011; poi ne divenni amministratore parrocchiale fino al 2014, perché nel frattempo nel 2000 ero stato nominato amministratore anche della parrocchia Madonna della Speranza di cui poi divenni parroco proprio nel 2011 fino al 2014.
Nel 2015 fui nominato parroco della parrocchia Santissima Annunziata in Porto d’Ascoli, incarico durato fino al 2019, quando fui inviato a Martinsicuro come parroco della parrocchia Sacro Cuore di Gesù e Madre Teresa di Calcutta, dove ancora presto il mio servizio pastorale.
Tutti i luoghi che ho menzionato sono stati per me una fucina, un ambiente molto fertile in cui ho imparato ad essere cristiano e parroco, stando a contatto con le persone e coinvolgendomi nella vita sociale delle comunità che ho accompagnato.
Contestualmente a questi incarichi pastorali, negli anni ho ricoperto anche altri incarichi che mi hanno fatto crescere come prete e come uomo. Dal 1997 al 2003, ad esempio, sono stato direttore della Caritas Diocesana. Sotto il mio mandato siamo riusciti ad aprire la mensa in via Giovanni XXIII che, dopo alcuni anni, è stata trasferita presso la sede attuale, in via Madonna della Pietà. La ricordo come un’esperienza davvero importante per me, in quanto ha contribuito molto alla mia formazione di giovane sacerdote.
Dal 2008 al 2014, inoltre, sono stato presidente del Collegio dei Revisori dei Conti dell’IDSC (Istituto Diocesano Sostentamento del Clero) e successivamente consigliere.
Dal 2007 al 2013 sono stato infine anche membro del Consiglio Presbiterale Diocesano, una sorta di Senato del Vescovo, e poi nuovamente rieletto nel 2018 ed attualmente ancora in carica. Sebbene sia un organo che ha carattere meramente consultivo e quindi chi decide sia sempre il vescovo, tuttavia è stato molto stimolante proporre iniziative diocesane e consigliare il nostro Pastore sulla vita pastorale della diocesi.
Cosa si sente di dire ai sacerdoti più giovani, in particolare a coloro che vivono un momento di fragilità?
Ai sacerdoti più giovani mi sento di dire solo due cose, semplici ma importanti.
Da un lato consiglio di vivere la realtà della parrocchia pienamente, a 360 gradi, approfondendo non solo un aspetto, bensì stando vicino a tutte le realtà parrocchiali e sperimentando con loro ogni sorta di esperienza. Dall’altro lato suggerisco di vivere una vita comune con il parroco con cui svolgono il loro servizio pastorale.
Ritengo siano molto importanti alcuni momenti di condivisione: la mensa, il confronto quotidiano sulla pastorale, l’elaborazione di progetti ed esperienze da far vivere alla comunità, la partecipazione attiva e propositiva alle scelte di gestione della parrocchia.
Tali momenti sono di arricchimento per tutti, sia per i giovani preti sia per coloro che hanno maggior esperienza, perché ciascuno può acquisire qualcosa dall’altro. In dialogo intergenerazionale di cui Papa Francesco spesso ha parlato può essere vissuto come momento di grazia anche all’interno del clero.
La Chiesa di oggi è bella, nel senso etimologico del termine, ovvero è capace di attrarre a sé, come faceva Gesù?
Sì, se sarà capace di mostrare il dono di Dio che è in tutti noi, attraverso la gioia, la passione e anche la fantasia, come hanno fatto i Santi.
Le parrocchie che si trovano alla periferia della Diocesi spesso non partecipano a tutte le occasioni di incontro a livello diocesano oppure non le vivono con la stessa intensità o altre volte le vivono in ritardo. Cosa si può fare per far sentire tutti i fedeli di tutte le parrocchie parte della più ampia comunità diocesana?
Sia all’interno delle parrocchie, sia tra parrocchie vicine, magari della stessa Vicaria, capita che molti fedeli non si conoscano e abbiano quindi pregiudizi e magari anche divisioni tra loro. Per evitare tutto questo e favorire la comunione sia tra i fedeli laici sia tra noi preti, si potrebbero proporre momenti condivisi di formazione spirituale e di convivialità, a piccoli gruppi, come facevano i primi cristiani. Credo che nei prossimi anni questa sarà la strada da seguire.
Ogni sacerdote nel suo mandato pastorale spinge in particolare su un aspetto delle fede. Lei a cosa dà la priorità?
Sono quattro gli aspetti che mi piace curare – e che ho sempre cercato di curare – nelle comunità che in questi anni ho guidato: la condivisione, la conoscenza delle persone, l’amicizia sincera e l’ascolto, che forse fra tutti è l’aspetto più importante. Solo intessendo relazioni autentiche e profonde, si può fare ed essere comunità.
Papa Francesco ha indicato la sinodalità come la più grande ed inevitabile sfida della Chiesa moderna: come la si può realizzare?
Rinunciando innanzitutto al “Si è fatto sempre così!“. Non è una questione di nuovi contenuti dottrinali, ma di uno stile, di un approccio diverso, per stare a fianco delle persone e condividere appassionatamente la loro vita. Solo così però si può fare il Cristianesimo.
Oltre alla sinodalità, quale crede che sarà l’ulteriore sfida che la Chiesa dovrà affrontare nel prossimo trentennio?
Vedo due sfide importanti ed urgenti: debellare l’individualismo e fare in modo che gli uomini tornino a fidarsi della Chiesa e ad affidarsi alla Chiesa.