Maria Elisabetta Gramolini
Difficile far credere a chi non ha nulla, nemmeno una famiglia che lo ama, che esista una alternativa alla droga e al potere che può dare. Ancora più difficile è pensare che nella condizione di abbandonati, non amati, ma sfruttati dalle bande criminali del narcotraffico, ci siano dei bambini. Dal 1978 padre Renato Chiera, ascolta il grido e la richiesta di aiuto dei ragazzi delle periferie brasiliane sottraendoli alla strada e alle sparatorie fra bande. A questa parte di umanità ferita, nel 1986, il religioso apre le porte della Casa do Menor, un’organizzazione che negli anni salva dalla violenza centinaia di migliaia di bambini ed è attiva in quattro Stati del Brasile. Ai loro occhi, il messaggio evangelico che insegna ai suoi bambini padre Renato appare rivoluzionario: l’altro è un dono.
Padre, l’umanità ha bisogno di recuperare una teologia dei bambini?
Nei bambini c’è Gesù. La parola ispiratrice di Casa do Menor è “l’avete fatto a me”. Sono 38 anni che aiuto i figli del Brasile che non sono amati.
Il motivo che mi spinge è Gesù, una presenza che sento dentro di loro. Quando vado incontro a loro mi alimento.
Un ragazzo di 15 anni stamattina mi diceva di essere stanco, di voler stare con la famiglia, si sentiva abbandonato proprio come Gesù sulla croce. Questi bambini sono tutti dei Gesù che si sentono abbandonati.
Casa do Menor ha cominciato proprio così, andando incontro ai bambini abbandonati?
Abbiamo iniziato ascoltando il grido dei ragazzi che non volevano morire, ma per vivere avevano bisogno di amore. Non pensavo di costruire la Casa do Menor. Quando ero piccolo, volevo essere come Don Bosco. Poi da adulto ho capito che il Signore aveva in serbo altro e ho lasciato l’insegnamento della filosofia a Mondovì. Nel 1978 sono stato mandato dal mio vescovo come missionario nella periferia di Rio De Janeiro dove mi sono scontrato con la povertà estrema. I ragazzi chiedevano che qualcuno li amasse. Uno di loro l’ho trovato sanguinante nel garage. Era stato ferito dalla polizia.
Abbiamo sentito il grido dei ragazzi che come lui per vivere avevano bisogno di amore. Avevano bisogno di Dio.
Oggi ci dedichiamo anche agli adulti che gridano e chiedono aiuto, nelle case di comunità terapeutiche dove ristrutturiamo la loro vita aiutandoli ad amare.
In tanti anni ha salvato 100mila ragazzi
No. Più di 120mila. Ci sono ragazzi che tornano a ringraziarci, magari dopo aver trovato una nuova via lontano dalla droga. Altri diventano missionari, sentono di essere dono per gli altri dopo aver ricevuto amore. Non lavoriamo per togliere la droga ma per ristrutturare la persona, riuscire a recuperare i rapporti con gli altri e i valori in cui credere. La droga entra quando la vita diventa brutta, non quando è felice. Tutti i giorni con i ragazzi buttiamo un dado con sei facce, su ognuna c’è una frase della Bibbia per insegnare ad amare. Oggi non si insegna più ad amare, è per questo che non siamo felici. Essere dono per l’altro ci cambia la vita e di conseguenza superiamo le carenze, lasciamo quello che cercavamo per riempire dei bisogni interiori.
Ognuno di noi è dono, non riusciamo più a vederlo.
Qui non siamo in guerra, ma le fazioni dei narcotrafficanti lottano fra di loro con continue sparatorie. Insegnare loro che l’altro è un dono è una rivoluzione.
Ha mai temuto per la sua vita?
Ho ricevuto molte minacce in passato. Quando sono arrivato c’era ancora la dittatura. Ma davanti alle morti non potevo rimanere con le mani in mano. Oggi ricevo aggressioni: mi dicono che sono comunista o che dovrei solo dire Messa. Vado avanti. Non è facile essere alternativi ai narcotrafficanti che danno potere e soldi.
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