Stefano De Martis
L’Istat ci fa sapere che l’inflazione continua a incidere pesantemente sui consumi delle famiglie. A settembre le vendite al dettaglio sono diminuite rispetto ad agosto dello 0,3% se si considera il valore, dello 0,6% se invece si considera il volume degli acquisti. Nel confronto con il 2022 la spesa è aumentata dell’1,3% mentre le quantità acquistate in volume sono scese del 4,4%. Si spende di più per comprare di meno, insomma. Cambiano anche le modalità di acquisto: vanno sempre forte i discount, mentre per la prima volta dal giugno 2022 scende il commercio elettronico: -1,6%, un calo superiore a quello dei piccoli negozi (-1,2%). E aumenta dell’1,6% il ricorso al commercio ambulante. Un altro indicatore significativo – la rinegoziazione dei mutui – registra un boom nei primi nove mesi di quest’anno, con un ammontare di 17,4 miliardi contro i 5,1 dell’analogo periodo del 2022, secondo gli ultimi dati dell’Abi.
Le rilevazioni dell’Istat sui consumi indicano una tendenza coerente con quanto segnalato nei giorni scorsi dall’Ocse (l’organizzazione dei Paesi più sviluppati) sui redditi reali delle famiglie:
se in tutta l’area si riscontra un aumento medio dello 0,5%, in Italia il reddito reale è diminuito dello 0,3%, unico dato negativo tra gli Stati membri del G7. Così pure per il Prodotto interno lordo reale per abitante, cresciuto negli altri sette grandi e sceso dello 0,3% nel nostro Paese.
Come si conciliano questi numeri con quelli che riguardano l’occupazione? A settembre, sempre secondo le rilevazioni Istat, essa è cresciuta di 43 mila unità (+0,2%). Rispetto al settembre 2022 l’aumento è stato superiore al mezzo milione, 512mila occupati in più (+2,2%). Per spiegare questa contraddizione – reddito e Pil pro capite in calo, occupati in crescita – fermo restando che si tratta di fenomeni dalle cause complesse, bisogna prendere in considerazione almeno due fattori: il numero di ore effettivamente lavorate e il livello delle retribuzioni. Nel secondo trimestre di quest’anno, per esempio, a fronte di un aumento di 129 mila occupati sul primo trimestre, l’input di lavoro (che viene misurato in ore lavorate) è diminuito di mezzo punto percentuale. Quanto alle retribuzioni, il recente dato dell’Ocse sui redditi reali conferma un problema ormai cronico del nostro Paese. Secondo i calcoli del sito Openpolis (ancora su dati Ocse e sulla base dei prezzi del 2020), negli ultimi trent’anni i salari reali medi degli italiani sono diminuiti del 3,6%, mentre in Spagna sono aumentati del 6%, in Francia del 31% e in Germania del 34%. Torna ancora una volta il tema del lavoro povero perché il concetto statistico di “occupato” può voler dire molte cose e la politica dovrebbe tenerne conto nel valutare la situazione reale di persone e famiglie.
Qualche segnale relativamente positivo, soprattutto in prospettiva e a livello globale, arriva dal versante dell’inflazione. In Italia, secondo le stime preliminari di ottobre, il tasso è sceso dello 0,1% su base mensile e nel confronto con l’anno precedente è passato addirittura dal 5,3% all’1,8%. L’Istat ha messo in guardia da facili entusiasmi e ha parlato di “effetto statistico” perché il paragone viene effettuato con l’ottobre del 2022 quando ci fu un’impennata dei beni energetici, oggi decisamente in ribasso rispetto ad allora. Un moderato rallentamento della crescita dei prezzi è rilevabile, anche se per sentirne gli effetti ci vorrà tempo e difficilmente si tornerà ai livelli di prima. Resta comunque intatta nella sua gravità e urgenza la questione epocale di un lavoro che anche quando c’è non basta per assicurare una vita dignitosa.