Guglielmo Fumi
Conoscere e preparare il proprio corpo che, come una barca a vela pronta a prendere il largo, impara a navigare nel mare aperto della malattia e, insieme ai suoi compagni, apprende come affrontare e gestire, giorno dopo giorno, i pericoli e le difficoltà del viaggio lungo delle cure col desiderio e l’obiettivo di giungere alla meta della guarigione. E laddove la guarigione non sia possibile, almeno provare a fare il possibile per rendere il viaggio più accettabile se non, esso stesso, fonte di vita. È il senso di “A gonfie vele”, un innovativo progetto terapeutico rivolto alle persone in cura e post-cura oncologica basato sulla pratica dello sport della vela. La malattia, infatti, fa perdere i riferimenti e costringe la persona a vivere l’incertezza, la frustrazione e il rischio di isolamento. Il progetto cerca quindi di sviluppare nei pazienti la capacità di adattamento ad eventi esterni indipendenti dalla propria volontà, la condivisione per operare scelte determinanti e riscoprire così la naturalità della malattia.
Tutto nasce nel 2012 dalla intuizione di una istruttrice di vela che, osservando i benefici dei corsi dedicati a persone con disabilità effettuati presso il Centro Velico di Caprera (Cvc), pensa di proporre la stessa esperienza ai pazienti oncologici. A raccogliere la sua idea un’amica psico-oncologa che grazie all’adesione dell’Associazione Umbra per la Lotta contro il cancro (Aucc) e soprattutto alla disponibilità del Cvc dà vita alla fattibilità del progetto.
Da allora, annualmente, 10-15 pazienti oncologici autosufficienti di età varia, in diverse fasi della malattia, insieme a due tre psico-oncologi ed un paio e un paio tra medici e/o infermieri della Oncologia medica di Perugia, raggiungono Caprera per una settimana a dir poco inusuale.
In un contesto spartano ed essenziale (non alberghi ma camerate in Tukul con letti a castello e bagni in comune, esterni), isolati dai rumori vacanzieri, circondati da rocce granitiche, mare cristallino e profumati arbusti di mirto, gli improbabili neofiti della vela vengono proiettati in un percorso di apprendimento del linguaggio e dei rudimenti dell’arte navale della navigazione. Ogni giornata ha i suoi ritmi e i suoi appuntamenti.
Dopo la lezione mattutina, sotto la guida rassicurante degli istruttori (tutti volontari) si passa alla pratica e l’imbarazzo e le paure lasciano immediatamente spazio all’emozione della novità. Gli allievi sono desiderosi di abbandonarsi al vento con l’ambizione di poterlo controllare, anzi, usare affinché possa condurli verso le mete desiderate.
Le metafore ricavabili per i pazienti e gli operatori sanitari sono infinite, a cominciare dal ritrovarsi proiettati in una realtà inconsueta, per lo più sconosciuta, come quella malattia che da un momento all’altro assale e trascina in una nuova dimensione.
L’obiettivo è “imparare”! Imparare a preparare e gestire la propria barca, l’ambiente nuovo e privo di certezze in cui si è stati costretti a vivere, sballottata e fragile e resa ancora più instabile dal beccheggio e dal rollio delle onde. È la nuova vita che ogni paziente è chiamato a vivere, cambiata dall’arrivo della tempesta della malattia che impone i suoi ritmi e le sue scelte. Per questo è necessario apprendere nuove tecniche di sopravvivenza per coordinare al meglio il nuovo viaggio. E le affinità sono tante.
Distinguere tra l’infinità di cime multicolori e sconosciute (cime, non corde) e saperle riconoscere (ognuna ha la propria funzione) è un po’ come rispondere alle sollecitazioni della malattia che costringe a riconoscere momenti e situazioni. Un modo per aiutare il malato a non restare impantanato nelle sabbie mobili di (a volte) incomprensibili percorsi burocratici o del susseguirsi di indagini e valutazioni talora con esiti discordanti.
Ed eccoci ad allestire le vele: bisogna anzitutto sceglierle (randa e fiocco solitamente), estrarle dai ripostigli (gavoni), toglierle dai sacchi, stenderle sulla barca (anche se non c’è spazio sufficiente) e fissarle pazientemente agli appositi punti (mura, albero). Operazioni importanti che richiedono una manualità da acquisire in fretta e fare propria, necessaria per passare alla fase operativa. Subito dopo infatti drizzare e fissare sia la randa che il fiocco, cui vanno legate le “scotte” che serviranno a tendere (cazzare) o allentare (lascare) la vela. Una metafora, questa, della loro esistenza e in particolare della prima fase della loro malattia, caratterizzata da procedure bioptiche, interventi chirurgici, confezionamento di stomie, posizionamento di accessi venosi stabili, endoprotesi. Fasi tutte da affrontare e superare.
Finalmente arriva il momento di sciogliere gli ormeggi e per farlo bisogna scegliere il momento giusto: attendere il brandeggio (oscillazione spontanea della barca rispetto al punto di ormeggio) favorevole; scegliere la galloccia (punto di fissazione sulla barca delle cime di ormeggio) adatta a favorirlo, e poi, si va! Si va e ci si abbandona alla forza del vento, ora troppo, ora troppo poco, agendo sul timone (orzando o puggiando) e sulla tensione delle vele (cazzando o lascando) perché la barca vada nella direzione voluta, magari zigzagando, seguendo un’andatura quasi innaturale oppure, a volte, scegliendo di andare anche contro la direzione del vento (bolina). E così è nella malattia, quando il percorso di cura indirizza in itinerari talora contorti, ma comunque diretti verso l’obiettivo che spesso si trova “controvento”. Ma c’è un elemento che rende il percorso ancora più unico e importante: viaggiare insieme! Giorno dopo giorno i partecipanti scoprono di non essere più soli ma parte di un equipaggio dove ognuno svolge un compito e ricopre un ruolo ben preciso: dal regolare vele allo scegliere la cima giusta; dal guidare il timone allo spostare il proprio peso per favorire l’andatura. Insieme! Perché il vento ti porti, non però dove lui vorrebbe, senza mai però perdere il controllo dell’andatura.
Al rientro poi il momento della riflessione comune, guidato dagli psicologi che consente di condividere “a caldo” quanto vissuto nella giornata. Emozioni, suggestioni, stimoli, scoperte, paure del noto e dell’ignoto, inevitabilmente legate e riferite all’esperienza della malattia. Condividere, per sentirsi equipaggio e non navigatori solitari. Perché il vero obiettivo del nostro viaggiare nel mare della vita, anche nella malattia, diventi il viaggio stesso, e la meta solo un pretesto.
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