Erasmo D’Angelis
Marche 16 settembre 2022, Ischia 26 novembre 2022, Romagna 1 maggio 2023, e dal 3 novembre la nostra Toscana. Sono le 4 devastanti alluvioni del nuovo clima che hanno colpito l’Italia, intervallate da un centinaio di eventi meteo estremizzati di portata minore ma con vittime e danni. Indicano che tutto è cambiato, mettono a nudo stati di dissesto idrogeologico e territori fin troppo cementificati per poter essere difesi, difese che non bastano più perché immaginate per altre fasi climatiche.
Che tutto è cambiato lo dimostra anche il nostro lessico. Non esiste più il classico “temporale” ma improvvisi flash flood, cicloni extratropicali, tifoni e uragani, medicane e tornado, mesocicloni e temporali auto-rigeneranti che si auto-alimentano imprevedibili e tropicalizzati con precipitazioni “esplosive”. E proprio quest’ultima tipologia ha colpito la nostra piana.
Sono fenomeni ancora difficili da intercettare, come rileva il consorzio Lamma, nato dall’intuizione del grande meteorologo Giampiero Maracchi che il 19 giugno del 1996, dopo l’alluvione imprevista dell’alta Versilia con 15 morti e previsioni del tempo che davano “sereno”, coniò l’espressione bellica “bomba d’acqua”, certificando la prima alluvione del cambiamento climatico in atto.
Oggi, le temperature del Mediterraneo mai così calde, caricano di energia l’atmosfera che scarica a terra fenomeni violenti e concentrati. E se fino al Novecento si contavamo tra 5 o 6 eventi estremi ogni 10-15 anni, dal Duemila siamo a un centinaio all’anno, di portata minore ma con vittime e danni.
Ma se vi sono eventi nella nostra storia che possono fare da spartiacque, l’alluvione della piana è uno di questi. La durissima emergenza per decine di migliaia di famiglie, i 7 morti, il sistema produttivo in ginocchio da Campi a Prato e Pistoia, impone uno scatto di responsabilità. Di tutti. Non facciamo più finta di non avere alle spalle, noi italiani, un archivio di catastrofi con 29.000 alluvioni e 11.000 frane nell’ultimo secolo che hanno colpito circa 14.000 luoghi della penisola, lasciando oltre 6000 morti, centinaia di migliaia di feriti, invalidi, orfani e milioni di sfollati, con un esborso in media annua per riparare i danni di 4 miliardi di euro dal 1946, cifra che negli ultimi 10 anni è quasi raddoppiata. E anche la Toscana ha l’obbligo di aumentare e rafforzare le difese, aggiornando i piani di prevenzione, riducendo il consumo di suolo, cancellando l’espansionismo edilizio su suoli a rischio idrogeologico, educando alla gestione del rischio.
La Toscana è entrata nell’ora più buia proprio il 4 novembre, e rivive oggi i giorni terribili di 57 anni fa quando l’Arno, rotti tutti gli argini, travolse a 70 km orari Firenze, rovesciando tonnellate di acqua, fango, melma e detriti anche in molti altri comuni toscani. Firenze rimase isolata per 4 terribili giorni. C’erano già 35 morti, 70.000 famiglie alluvionate, 6.000 negozi devastati, 20.000 automobili sott’acqua e nel fango, migliaia di officine, fabbriche, laboratori, tipografie, botteghe artigianali e cantine allagate. Mancava tutto. Ma la città si auto-organizzò, aiutata dalla prima mobilitazione spontanea soprattutto dei giovani, gli “angeli del fango” che abbiamo visto in azione da allora dopo ogni catastrofe. Giunsero in città da ogni parte d’Italia e da molti Paesi del mondo. Da quella devastazione non nacque solo la grande scuola del restauro italiano, ma dalla forza delle ragazze e dei ragazzi del ‘66 nacquero le grandi associazioni del volontariato e la stessa Protezione civile.
Perché vale la pena, ricordarlo? Perché è l’ora di dire basta ai ritardi nella prevenzione. Perché dopo quel 1966 a Roma iniziò una storia di annunci di progetti per la sicurezza dalle alluvioni dell’Arno, di firme di finti accordi per finanziamenti solo immaginari, di promesse e rinvii durati 48 anni! Mezzo secolo! Tempi morti durante i quali la Toscana riuscì almeno a costruire la diga di Bilancino e lo scolmatore di piena di Pontedera. Solo nel luglio del 2014 i cantieri immaginati nel 1970, con 4 casse di espansione, sono stati inaugurati, e intorno all’Arno oggi c’è un sistema di difesa per contenere a monte 60 milioni di metri cubi di acqua di piena. Ma non è così per molti corsi d’acqua minori e moltissimo o tutto resta da fare.
Mai come oggi, serve uno scatto di responsabilità di tutti, per contrastare un repertorio di pericoli evidenti “mettendo a terra” opere e interventi che servono. Affiancati da tanta educazione alla conoscenza dei fenomeni naturali e alla gestione delle fasi di emergenza. È il cantiere più utile di cui abbiamo urgente bisogno.
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