Lucandrea Massaro
“La vita è sempre più forte” dice Alessandro Galassi, regista del docufilm prodotto da Avvenire dal titolo “The Dreamers – Afghan women’s resistance”, davanti alla platea romana che ieri ha potuto vedere in anteprima assoluta il frutto dell’attenzione del quotidiano dei vescovi nei confronti della sorte delle donne afghane che dopo il ritorno del regime talebano nell’agosto del 2021 hanno subito una regressione completa dei loro diritti, ma non si sono arrese. Il titolo del documentario è “The Dreamers” è un omaggio ad una canzone dei “BTS”, la più famosa band di K-Pop (pop coreano, ndr) al mondo, idoli di qualsiasi teenager nel mondo, anche in Afghanistan. Le ragazze che hanno aperto il loro cuore all’inviata di Avvenire Lucia Capuzzi e al regista Galassi, hanno raccontato il loro desiderio di continuare a studiare e grazie al lavoro instancabile e al coraggio di un’associazione, continuano ad apprendere e a insegnare in 25 scuole “segrete” sparse nel paese. Oltre 2000 studentesse, grazie agli sforzi internazionali e alla rete di donne e uomini che non si sono piegati al diktat del regime, in quattro provincie dove il controllo è leggermente meno opprimente, in segreto continuano il percorso di studi che altrimenti sarebbe proibito. Come dice una delle insegnanti (la cui identità è ovviamente segreta) esse sono disposte a “accettare il rischio perché non vogliamo lasciare le nostre ragazze analfabete”.
Questo film ha anche una sorta di “gemello” cartaceo, un volume edito da Vita e Pensiero, dal titolo “Noi, afghane. Voci di donne che resistono ai talebani” curato dalle giornaliste di Avvenire, Lucia Capuzzi, Viviana Daloisio e Antonella Mariani, che ha illustrato le linee e le finalità del progetto #avvenireperdonneafghane che ha mobilitato il giornale in un racconto non episodico della vita delle donne in Afghanistan. “Non si può dimenticare crescendo di divieti per le donne che è iniziato nel 2021 – ha detto la Mariani –, il più odioso dei quali resta è sicuramente il divieto di andare a scuola”. Il documentario è parte di questo progetto, un unicum nel panorama informativo italiano, ed è stato inserito all’interno della 29esima edizione del “Med Film Festival” ideato da Gisella Vocca che ha dato il senso di questa kermesse e di questo stesso film: “Incontrare e specchiarsi nelle vite degli altri è sempre una occasione per capire il presente”.
Effettivamente vedere questo documentario è stata una occasione per uscire da una narrazione manichea dell’Afghanistan che lascia immaginare un paese in cui metà della popolazione è sotto il burka: l’oppressione è presente ma non è tutta uguale, esistono sacche di relativa libertà e soprattutto c’è un mondo silenzioso ma operoso che prova a cambiare le cose, a resistere, a costruire le condizioni perché un domani le cose possano cambiare, innanzitutto permettendo alle donne di istruirsi, ma anche – grazie alle ong che lavorano nel paese – a immaginare percorsi di autoaiuto e di parziale emancipazione. In una società in cui una donna non può fare nulla senza un uomo, le donne vedove sono destinate alla fame, letteralmente. Il film mostra la relativa libertà della provincia di Baiymian dove studiano quasi la metà di tutte le ragazze coinvolte nel progetto.
Esistono spazi in cui incuneare una azione, anche internazionale? Ne è convinta l’inviata Lucia Capuzzi secondo cui “all’interno dei talebani ci sono due anime, una pragmatica e una radicale. Al momento sono i secondi a detenere il potere, con una idea di totale separazione della società, ma ci sono zone grigie dove i docenti vengono in qualche modo protetti dalle autorità locali. Non bisogna immaginare un Afghanistan monolitico, ci sono situazioni in cui le forze locali sono in grado di fare resistenza nei confronti del regime”. Presente anche la Caritas Italiana in questo sforzo come ha ricordato il direttore nazionale, don Marco Pagniello. “Siamo vicini a questa rete informale per aiutare le donne a poter realizzare la propria vita studiando – ha sottolineato don Pagniello – e cerchiamo di portare in Italia i casi più fragili di donne, bambini ma anche uomini che sono riusciti a scappare”. Come ad esempio Madina Hassani, oggi mediatrice culturale con Nove Caring Humans, che era presente in sala e ha dimostrato tutta la determinazione delle afghane in esilio (e in patria) “Noi siamo la generazione che ha combattuto per la libertà, spero che la prossima sia quella che potrà goderne” e ancora “ci sono milioni di persone e di talenti inespressi che attendono una occasione”.Khaled Ahmad Zekriya, ambasciatore afghano in Italia, è intervenuto con un saluto ma soprattutto con una idea precisa: preparare la classe dirigente che domani dovrà prendere le redini di un Afghanistan libero e creare le condizioni perché si possa creare una Conferenza internazionale che rimetta al centro del dibattito la questione afghana.