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Sorelle Clarisse: timore o paura?

DIOCESI – Lectio delle Sorelle Clarisse del Monastero Santa Speranza di San Benedetto del Tronto.

La scorsa domenica abbiamo parlato della Sapienza, quella Sapienza che non è una conoscenza teorica né un sapere intellettivo ma un atteggiamento di vita, il modo di guardare alla vita capace di scoprirvi dentro le tracce del bene possibile e ciò che serve per farlo crescere.

Oggi, la liturgia nella prima lettura, ci presenta la figura di una persona saggia. Siamo all’ultimo capitolo del Libro dei Proverbi, ascoltiamo: «Una donna forte chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto […]. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. Stende la sua mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Illusorio è il fascino e fugace la bellezza, ma la donna che teme Dio è da lodare».

Questa donna incarna tutto ciò che il saggio di Israele dovrebbe essere: una persona attiva, che ha imparato a vivere, a provvedere per se stessa e per gli altri, a costruirsi un futuro di sicurezza. Una persona che non pensa solo a se stessa, che si apre ai poveri, che pone al centro della sua vita il lavoro svolto con saggezza e , apriamo bene le orecchie, il timore di Dio.

Il Libro dei Proverbi, lo abbiamo appena letto, lo sottolinea con forza: «…la donna che teme Dio è da lodare».

Cos’è il timore di Dio? E’ l’atteggiamento di rispetto e venerazione nei confronti di Dio, di affettuosa conoscenza e di profonda gratitudine verso Lui che è la sorgente di ogni bene, l’obbedienza alla sua volontà e la scoperta della sua santità.

Tutti atteggiamenti che, secondo la Scrittura, costituiscono la radice, la pienezza, la vera natura della sapienza.

E’ una categoria, quindi, quella del timore di Dio, che non ha nulla a che fare con la paura.

La paura, infatti, paralizza, blocca, rende sterili. E’ quella modalità con la quale, lo leggiamo nel Vangelo di oggi, uno dei servi della parabola che la liturgia ci presenta, si relaziona a Dio.

E’ la parabola dei talenti, la conosciamo bene. Il servo a cui il padrone affida un talento corre subito a nasconderlo, a differenza degli altri servi a cui sono affidati rispettivamente due e cinque talenti che, invece, vanno ad impiegarli per farli fruttificare.

«Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”».

Quest’ uomo ha una sua idea di Dio, l’idea di un Dio duro, che ti sta addosso, con il fiato sul collo, che non fa altro che generarti frustrazione perché ti chiede il rendiconto di quello che ti ha affidato.

In una simile concezione di Dio c’è posto solo per la paura e la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto, nulla di più e nulla di meno. Il servo non vuole correre rischi e così diventa un burocrate senza alcuna intraprendenza, senza alcuna voglia e desiderio di vita.

I primi due servitori sono l’immagine dell’operosità e della intraprendenza: trafficano ciò che è stato loro affidato e consegnano il doppio di quanto hanno ricevuto. Non hanno paura di Dio ma sono animati da quel sano timore che caratterizza anche la donna presentataci nella prima lettura, ovvero riconoscono Dio come sorgente di ogni bene.

Scrive un biblista: “Se credi ad un Signore che offre tutto e non chiede indietro nulla, che crede in noi e ci affida tesori, follemente generoso, che intorno a sé non vuole dipendenti e rendiconti ma figli, allora entri nella gioia di moltiplicare con Lui la vita”.

Noi non esistiamo per restituire a Dio i suoi doni. Questa immagine, dettata dalla nostra paura, immiserisce Dio. Noi viviamo per essere come Lui, a nostra volta donatori: di pace, libertà, giustizia, gioia. Allora, come dice il salmista, «Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene».