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San Benedetto, conosciamo il capitano Antonio Fanesi e la sua “ciurma di immigrati”

Di Ana Fron

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Il mondo dell’immigrazione non è un mondo a sé, fatto di stranieri. Gli immigrati sono solo una componente di un intero sistema sociale; l’altra parte è formata da chi li accoglie. Che siano amici, fidanzati, interlocutori negli scambi culturali, ospiti turistici oppure datori di lavoro, hanno tutti un ruolo importante nell’esito migratorio; di responsabilità e di merito. Si, di responsabilità e di merito, in quanto dall’accoglienza dipende la riuscita o il fallimento dei progetti delle persone singole e di famiglie; del benessere e della tranquillità dell’intera società di cui facciamo parte tutti.

E proprio dal merito di un capitano che vorrei partire oggi nel raccontare storie positive di immigrazione sul nostro territorio, Antonio Fanesi, e anche dei due bravi armatori, come Paolo Mastrangelo e Pietro Merlini. Loro, come gli altri nel porto di San Benedetto del Tronto, hanno saputo costruire rapporti solidi di amicizia, oltre che professionali, con i loro uomini, che siano autoctoni oppure immigrati.

Attraverso i racconti dei nostri interlocutori: Djibril, Houssem, Moussa, pescatori di vecchia data, tocchiamo con mano i valori dell’accoglienza, della professionalità, della costanza nella fatica, del rispetto per il prossimo e per il mare, la dedizione e la responsabilità del benessere della propria famiglia, siano ancora vividi.

Lo spunto mi viene dallo sguardo sincero, amorevole e pieno di riconoscenza di Moussa, di origine senegalese, che guarda il capitano nel volerlo descrivere.

“Giuro! Tra tanti comandanti che ho avuto nella mia lunga esperienza sulle navi, lui è il migliore!”

Moussa è un uomo dall’aspetto sereno, sorridente e amabile. Tuttavia, il suo racconto, circa i tanti anni vissuti in mare su rimorchiatori e pescherecci, ci inducono a pensarlo come vigoroso e resiliente. Fin da giovane Moussa lascia il Senegal per imbarcarsi su navi che hanno solcato tanti mari. È stato nelle isole Falkland, in Grecia, poi sulle coste dell’Olanda e del Belgio, oltre che in Italia, in Sardegna e a San Benedetto del Tronto.

E si sa che in questo lavoro ci sono uomini duri, formati alla “scuola” della fatica notturna, dall’acqua gelida e dall’imprevedibilità della ricompensa del lavoro.

Ma il suo capitano, Antonio, non si è fatto incattivire dalla asprezza del lavoro. Semmai, è diventato ancora più sensibile e altruista; attento al benessere della sua ciurma.

Lo dice con patos, con convinzione Moussa; come per ripagarlo di tanta benevolenza ricevuta. Corrispondere “un debito di calore umano” non in soldi perché di soldi non ne ha a disposizione. Lui ha una famiglia con cinque figli in Senegal, che ha mantenuto per anni con il suo lavoro da pescatore e che deve ancora mantenere; lavoro che ha perso in seguito al periodo del covid, mentre lavorava in Olanda e che spera di ritrovare qui, a San Benedetto del Tronto.

Ma il capitano apprezza queste parole; le accoglie con commozione perché tramite queste dichiarazioni gli viene riconosciuta l’umanità e la professionalità che lo contraddistinguono.

“Ti ringrazio per la considerazione Moussa! È il mio dovere! D’altronde, un buon equipaggio lo fa il suo capitano!

E lui, ha formato nel tempo per davvero un buon equipaggio; unito e solidale, del quale si è preso cura nella buona e nella cattiva sorte; come si addice ad un vero condottiero.

Nell’intervista che gli facciamo, la mia collega ed io, dimostra di conoscere bene i suoi uomini. Sa tutto di loro e delle loro famiglie. Sa che questi marinai mandano la maggior parte del loro stipendio alle famiglie, in Senegal; fatto per il quale si adopera a consegnare con puntualità la paga. Sa che, per la loro religione seguono diete alimentari diverse che rispetta a dovere, quando per giorni prendono il largo con la barca; gesti ricambiati dai pescatori mussulmani, mentre sulla nave Umberto Padre osservo (nella mia visita) esposti dovunque crocifissi e altri simboli religiosi della tradizione cristiana.

“È bravo e premuroso. Al momento del salario si informa se mando i soldi alla mia famiglia”, conferma Djibril sorridendo. E, Djibril non è uno che parla a vanvera. Lui è un veterano della pesca, molto rispettato tra i colleghi; arrivato in Italia con un contratto di lavoro anni fa, quando i pescatori italiani gettavano reti in Atlantico, sulle coste del Senegal. Il contesto lavorativo richiedeva, per convenzioni internazionali, manodopera locale. Dunque, le navi italiane potevano pescare in quelle acque solo a condizione di imbarcare pescatori locali e, uno di loro è stato Djibril, che poi, per la sua professionalità e serietà, è stato invitato in Italia, con un contratto. Anche Djibril ha una famiglia numerosa in Senegal: moglie e quattro figli. Il quinto, il maggiore, vive con lui, a San Benedetto del Tronto.

“Guardate Djibril”, ci invita Antonio “sembra che il duro lavoro in mare non lo abbia segnato fisicamente.”

“È perché non fumo, non bevo l’alcool e in questo modo mi salvaguardo la salute”.

Osservo con attenzione Djibril e vedo un uomo alto, con una postura fiera e dignitosa. Mi faccio un’idea della sua età; non gli attribuirei più di 55 anni.

“Ha 68 anni” ci dice con fierezza Antonio.

Capisco che il capitano vuole vantarsi dei “suoi uomini”; come per dire “guardate il mio equipaggio, è meglio in tutti gli aspetti”.

Con un po’ di ritardo arriva alla nostra “tavola rotonda” un’altra persona; è Houssem.

Alla domanda della mia collega sul “pensate che gli stranieri e gli autoctoni, a parità di mansione, siano pagati allo stesso modo?”, risponde Houssem, in un italiano impeccabile, “si, tra di noi operatori del mare ci conosciamo e ci confrontiamo su questo argomento dunque, sappiamo che veniamo retribuiti con equità.”

Lui è arrivato dalla Tunisia con un progetto di studio, all’Ipsia, dove ha frequentato la sezione meccanica. È rimasto poi a lavorare sui pescherecci, facendo tutta la trafila, partendo dal ruolo di “mozzo” fino ad arrivare oggi all’età di 42 anni a ricoprire quello di motorista. Sposandosi con una connazionale ha formato poi in Italia una bella famiglia, con due figlie, di cui va molto orgoglioso.

Djibril, Houssem e Moussa parlano bene della loro integrazione nella comunità sanbenedettese. Si sentono accolti e ben voluti. Certo, “qualche stupido che ci guardi in modo malevole c’è” dice Houssem, “ma tali “personaggi” sono dappertutto nel mondo.”

La storia di questi grandi uomini ci dimostra che la convivenza pacifica e rispettosa si può, anche nella multiculturalità. La loro ricetta è la volontà e l’incontro; il vero incontro, che è quello di voler apprendere quanto più possibile sullo stato del benessere o meno del collega di lavoro. Sapere i modi di pensare e di pregare uno dell’altro; la situazione famigliare e i bisogni di tutti i giorni. Conoscerli e rispettarli. Essere solidali a vicenda e mettersi tutti in una posizione paritetica, perché sulla nave, in balia della tempesta si salvano tutti insieme.

Ci vuole però un vero capitano che gestisca bene la ciurma; uno come Antonio, come Paolo e Pietro.

I pescatori del porto di San Benedetto del Tronto, con il loro esempio, possono insegnare molto sull’incontro multiculturale ad altri ambienti. Impariamo tutti da loro!

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