Bruno Desidera
Tra la “minestra riscaldata” del peronismo di Sergio Massa e il salto nel buio, gli argentini hanno scelto la seconda soluzione. Temuta da molti, alla fine la vittoria di Javier Milei, in Argentina, è arrivata. In in modo chiaro e inequivocabile, con circa 11 punti di scarto, più di quelli che pronosticavano i sondaggi (55,69% contro 46,30%). Milei vince in gran parte delle province, di strettissimo margine nella periferia di Buenos Aires, più nettamente nel centro della capitale, mentre dilaga più a nord e a ovest, nelle province di Santa Fe, Córdoba e Mendoza.
Massa si è, dunque, fermato all’affermazione del primo turno (era in vantaggio di sette punti). Gli elettori non hanno dato fiducia all’attuale ministro dell’Economia, che non ha saputo fermare la crisi economica e l’inflazione, che galoppa al 140%. E hanno affidato tutte le loro speranze a colui che, nella notte, ha promesso “cambiamenti drastici, senza gradualità”, annunciando “la fine del modello dello Stato onnipresente che crea povertà, per abbracciare l’idea di libertà”. Termine che, nella concezione di Milei, significa liberismo spinto e fine dei sussidi, oltre che l’adozione del dollaro al posto del disastrato peso.
I motivi della vittoria. In realtà, la vittoria di Milei è arrivata senza dubbio grazie all’appoggio della destra liberale e più moderata guidata da Patricia Bullrich (la candidata giunta al terzo posto al primo turno), il candidato populista e iperliberista è riuscito a prevalere, nonostante le tante prese di posizione eccentriche e polemiche. Non è il primo populista a vincere le elezioni in modo clamoroso, e non sarà neppure l’ultimo. Come accaduto ad altri candidati ritenuti “estremisti” e “pericolosi” – si possono fare gli esempi di Donald Trump e Jair Bolsonaro, che pure presentano varie differenze con la figura e i riferimenti del neoeletto presidente argentino – Milei ha calamitato tutte le attenzioni in campagna elettorale. “Direi che è stata una campagna atipica, perché non si è discusso dell’amministrazione del governo, ma delle proposte di Milei”, afferma il prof. Ignacio Labaqui, analista politico e sociologo dell’Università Cattolica Argentina (Uca).
“Più che una polarizzazione ideologica, c’è molta insoddisfazione nella gestione dei principali problemi della società da parte dei partiti tradizionali. Da qui l’emergere di una figura come Milei”.
Del nuovo presidente sono ormai note le proposte “radicali”, in merito ai tagli di spesa pubblica e alle politiche assistenziali. Ha promesso, con in mano una motosega, di liberare l’Argentina dalla “casta”. Senza dimenticare alcuni riferimenti nostalgici alla stagione della dittatura militare, più evidenti nelle prese di posizione della candidata alla vicepresidenza Victoria Villarruel, deputata conservatrice vicina al partito spagnolo Vox e al mondo militare. E, nonostante siano stati ritrattati in campagna elettorale, sono noti pure gli attacchi a Papa Francesco.
Democrazia non a rischio. Davvero Milei, l’extraterrestre arrivato alla “Casa Rosada”, è dunque un rischio per la democrazia? Per il docente, al netto del programma di Milei, le cose non stanno così: “Il nuovo presidente, al di là dei proclami, non ha altra scelta, se non quella di moderarsi in caso di elezione. Al primo turno ha ottenuto solo l’appoggio di un terzo dell’elettorato, e sarà il presidente del Congresso più debole dal ritorno della democrazia, probabilmente anche di tutta la storia argentina dall’adozione del suffragio universale. Che si moderi o meno, la sua sfida principale è la governabilità. L’alleanza con Bullrich aggiunge alcuni parlamentari, ma non abbastanza per approvare le leggi”.
“Dunque, credo sia esagerato parlare di minaccia per la democrazia. Numeri alla mano, Milei sarà un presidente estremamente debole”.
“I presidenti forti sono quelli che godono di maggioranze ampie al Congresso e possono, per esempio, controllare le nomine alla magistratura. Questi, storicamente, sono stati una minaccia per la democrazia. Per Milei si tratta più di una sfida in termini di governabilità, che di una minaccia alla democrazia”. Come accennato, decisiva è stata l’alleanza con buona parte della coalizione liberale. La scommessa, ora è quella della governabilità, e non sarà per niente facile.
Il presidente, del resto, starà seduto su un’autentica pentola a pressione, e sarà chiamato ad affrontare una crisi economica e sociale che sembra irrisolvibile. “L’Argentina – prosegue Labaqui – deve attuare un piano di stabilizzazione per ridurre l’inflazione, che ha raggiunto livelli mai visti dal 1990. Questo richiede, oltre a una diagnosi corretta e a un piano adeguato, il sostegno politico e la capacità di negoziare con i sindacati e i movimenti sociali”.
Occhi puntati anche sulla politica internazionale: “Massa aveva già avuto molti contatti internazionali con alti funzionari di Brasile, Cina, Europa e Stati Uniti. Ciò non significa che non avrebbe avuto conflitti, ad esempio sul programma del Fondo monetario internazionale, sulle licenze 5G o sulla gara d’appalto per le vie d’acqua. Con Milei, il rapporto con gli altri Paesi sarà un’incognita, ma è facile ipotizzare pessimi rapporti con i governi di sinistra del Cono Sud e con Amlo in Messico”. Tutta da confermare anche l’adesione dell’Argentina ai Paesi Brics, che era stata annunciata in occasione dell’ultimo vertice tra Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica. In ogni caso, la vittoria di Milei conferma che l’idea di una “svolta a sinistra” del subcontinente sudamericano, di cui si parlava ampiamente un anno fa, è assai fragile.
Le preoccupazioni della Chiesa. La Chiesa argentina ha seguito con grande interesse la sfida elettorale, indicendo una Giornata di preghiera per la Patria venerdì scorso. Segno che la scadenza elettorale veniva colta come un passaggio chiave, anche se dall’episcopato non erano giunte prese di posizione in merito alla scelta sui candidati, nonostante gli attacchi di Milei al Papa. Il nuovo presidente sarà giudicato per quello che farà o non farà, soprattutto rispetto ai tanti poveri e svantaggiati. A dare voce a questa preoccupazione sono stati, alla vigilia del voto, i “curas villeros”, i sacerdoti dei quartieri periferici di Buenos Aires e delle altre principali città: “I più umili del nostro popolo hanno bisogno della sanità pubblica e dell’istruzione, dell’aiuto contro la piaga della droga, dell’integrazione socio-urbana dei quartieri popolari e della tranquillità di una democrazia consolidata”. “Non decidiamo con la paura. Non possiamo fare nulla di buono se abbiamo paura”, ha detto l’arcivescovo di Buenos Aires, mons. Jorge Ignacio García Cuerva, ieri mattina durante l’omelia domenicale. E ha avvertito che “la crisi sociale si è aggravata perché abbiamo paura gli uni degli altri”. Un male oscuro dal quale non sarà facile, per l’Argentina, liberarsi in tempi brevi.