di Paolo Zucca
Il dollaro già circola abbondantemente in Argentina. Per avere un biglietto verde chi può offre almeno mille pesos. Gli stipendi popolari minimi sono di circa 150mila pesos. L’inflazione annua supera il 140% e non è leggenda che i negozi cambino i prezzi sui cartellini almeno una volta al giorno. In molti casi non li mettono neppure. Si comprano dollari appena possibile. Si cercano dollari nei mercati ufficiali e meno ufficiali perché nessuno vorrebbe avere in tasca la valuta locale. Le svalutazioni ufficiali e quelle di fatto hanno impoverito i 46 milioni di argentini che vivono in un territorio molto ampio, nove volte l’Italia, potenzialmente ricco.
Con le elezioni politiche di domenica la difficile gestione del Paese toccherà a Javier Milei, a capo di un partito di destra liberista che – nelle intenzioni – smantellarà gran parte delle scelte dei precedenti governi peronisti. Meno Stato nell’economia, meno pubbliche amministrazioni, privatizzazioni delle grandi imprese, meno protezioni sociali garantite.
Milei lo ha detto in una campagna elettorale verbalmente violenta, impugnando una motosega, con toni che lasciano poco spazio a ripensamenti moderati. Esplicito il riferimento al dollaro come moneta futura e non è una novità in assoluto visto che al mondo altri Paesi oltre all’Argentina mettono in panchina la valuta locale per affidarsi alla stabilità del biglietto verde. La “dollarizzazione” del Paese, dibattuta per anni, è un’arma a doppio taglio: da una parte, si fissano scambi commerciali e prestiti in una supervaluta che si muove poco, che tutto il mondo riconosce e accetta come stabile. Per questo un nuovo prestito in dollari costerà meno di interessi perché c’è poco “rischio di cambio” (chi presta non ottiene più pesos iper-svalutati) mentre resta pericolosissimo il “rischio di controparte” (il debitore non è più in grado di restituire capitale e interessi), quell’insolvenza Paese che ha sorpreso anche i risparmiatori italiani all’inizio degli anni Duemila. I famosi “tango bonds”.
Dall’altra perché si possa ripagare l’enorme debito accumulato, Buenos Aires dovrà correre, l’economia dovrà produrre utili e le privatizzazioni dovranno andare in porto senza prezzi di saldo. L’aggancio al dollaro toglie quel poco di autonomia decisionale che era rimasta. La sfida è delicatissima.Milei, un economista che vuole cancellare la sua Banca centrale, dovrà imporre dei tagli alla spesa pubblica, quindi anche a settori vitali come sanità, scuola, sicurezza sapendo che gli avversari peronisti sono ancora molto forti nelle amministrazioni pubbliche centrali e locali, nell’amministrazione, nell’esercito, nel sindacato e nella cultura. C’è il rischio di disordini gravi come nel 1989? O degli anni successivi quando la sfiducia portò ad assalti agli sportelli? O addirittura di colpi di Stato o un crollo del Governo dopo pochi mesi come vorrebbero gli scenari più foschi?
Ora la campagna elettorale è finita. Tutti hanno bisogno di capire se gli slogan estremi si tradurranno in realtà. Se verrà garantito qualche spazio all’opposizione, se verranno utilizzati tecnici moderati. Agganciarsi subito il dollaro potrebbe favorire il supporto degli Usa e dell’Europa. Ma scontenterebbe Brasile, Cina e gli altri tre Paesi Brics (Russia, India e Sudafrica) che stanno costruendo un polo alternativo agli organismi internazionali dell’Occidente. L’Argentina come altri Paesi era stata invitata, ora tocca al neopresidente Milei decidere.
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