Di Ana Fron
MARCHE – La disciplina della psicologia dell’immigrazione si interessa agli individui impegnati in un processo migratorio, chiamato fenomeno di movimento umano, e distingue due tipi di migranti: quelli “economici”, spronati dalla voglia di migliorare la propria condizione di vita e quegli “forzati”, che sfuggono a guerre o altri tipi di calamità. (Aspetti psicologici della migrazione e gestione dei conflitti, V. Monaci, Università di Siena).
Si parla, a ragione, delle cause e delle ripercussioni della migrazione forzata, non “scelta”, necessaria per la difesa della vita; un diritto fondamentale ed inalienabile dell’uomo, sancito da tutte le convenzioni sui diritti dell’uomo e dalla nostra Costituzione per concludersi con il riconoscimento e la tutela esplicitate nella convenzione di Ginevra del 1951; patto nel quale, viene indicato chi è un rifugiato e quagli sono i doveri degli stati nei loro confronti; ovviamente parliamo degli obblighi dei 144 stati firmatari.
Dunque i migranti forzati hanno un riconoscimento ed una tutela; almeno dal punto di vista teorico ma cosa “se ne fa” il mondo dei migranti “economici”? Al contrario di quegli “forzati”, loro non hanno appoggi legali importanti. Certo, le moderne democrazie dichiarano nelle loro Costituzioni il riconoscimento della dignità di tutti gli uomini e del pieno sviluppo della persona umana (art 3). Poter lavorare ed avere una dignità. Ma solo sulla carta perché in realtà non sempre è così.
In Italia abbiamo comportamenti “positivi” (se li osserviamo da una certa angolatura) nei confronti dei migranti economici, però saltuari, come può esserlo quello circa la concessione dei flussi di ingresso per lavoro. E cos’altro?
Cosa sbagliata è considerare questa categoria di migranti “non in pericolo”. Come se, la mancanza di lavoro, di mezzi per sostentamento, non mettano a rischio la vita delle persone, la loro dignità ed il loro “pieno sviluppo” (art.3).
Per carenza di mezzi di sostentamento le persone partono. È successo e succede tuttora a tanti.
È accaduto anche a Marie (nome di fantasia), una giovane donna partita dalla Nigeria, per cercare di costruirsi un futuro in un paese più ricco e attraente. La Nigeria scrive la Farnesina, non è considerato un paese a rischio da poter chiedere protezione internazionale e non ci sono molti modi per viaggiare avendo un visto, quindi si parte “alla cieca”. Dunque, anche Marie lascia il suo paese, insieme ad un gruppo di persone con l’obiettivo di arrivare in Europa. In quel periodo, la rotta degli africani subsahariani aveva come centro di imbarco sul Mediterraneo la Libia; oggi è la Tunisia. Tuttavia, per molti migranti, la sosta in Libia era prolungata; dovuta alla necessità di lavorare e guadagnare i soldi necessari al pagamento dello scafista.
Marie è contenta di salire su un autobus con meta intermedia la Libia. Una volta sul suolo libico, la giovane inizia a domandare in giro per un lavoro. Come molti connazionali, non ha una qualifica e spera di trovare qualche cosa nel campo delle pulizie.
Ma in Libia, i grandi intenditori di persone in difficoltà sono in agguato e sfruttano ogni circostanza che si presenta loro. E Marie con le sue necessità è proprio un’occasione da non perdere per una donna del posto, che la mette sotto la sua “protezione”, gettandola in strada. Da quel momento la giovane perde la sua libertà.
Passano due lunghi anni di soprusi di ogni tipo; di “lavori” indegni e degradanti come indegni e degradati sono coloro che ne beneficiano. Marie non può trattenere i soldi dei clienti. Li deve consegnare tutti alla madame; riesce a nascondere solo qualche dinaro per mangiare.
Un giorno, in occasione di una ribellione, la giovane viene consegnata alle autorità di frontiera che la rinchiudono in un centro di trattenimento e rimpatrio. Trascorsi sei mesi, riesce finalmente a salire su un piccolo gomone fatiscente e prendere la direzione dell’Italia attraverso il Mediterraneo.
Ma quanto le sono costati i soldi del viaggio? Sul corpo ha ancora i segni dei tagli, delle ferite.
Troppo!
E che valore ha la sua vita per chi l’ha mandata in mare aperto, su un gommone instabile?
Nessuno!
Solo per buona sorte arriva, dopo ore di navigazione, nei pressi delle navi d’intervento in mare delle ONG.
All’avvistamento dei soccorritori, il solito trambusto capovolge il gommone; cadono tutti nell’acqua gelida. Lei si salva perché, fortunatamente sa nuotare, ma alcuni dei compagni di viaggio annegano.
Marie finalmente sbarca a Lampedusa, dove viene fatta salire su un bus e destinata nelle Marche. In qualità di beneficiaria dei progetti per i richiedenti protezione internazionale, usufruisce di corsi professionali e piano piano s’integra in varie comunità marchigiane.
Oggi è davanti a me. Mi parla con dolcezza. La scruto per vedere i segni di tanta sofferenza ma Marie sembra li nasconda.
Vuole che trasparisca solo la gratitudine per le opportunità a lei offerte nei centri di accoglienza nelle Marche. Pensa solo a “ripartire”, per l’ennesima volta. Iniziare, un’altra e un’altra volta ancora, una nuova vita. Continuando a fidarsi del prossimo, senza rimuginare sulle sventure passate.
Mi immedesimo in lei e penso che un’esperienza come la sua mi avrebbe reso ostile verso il mondo e verso l’umanità ma, Marie sembra resiliente
Si dichiara contenta perché adesso lavora, ha un fidanzato e una casa in affitto.
La ringrazio per aver accettato di testimoniare il suo viaggio e vado via con l’amaro in bocca.
Perché abbiamo fatto questo a Marie? Perché abbiamo acconsentito agli accordi con “stati non sicuri”, per trattenere i migranti, anziché costruire altre opportunità?
Nessuno stato contraente con questi patti è mai riuscito a fermare i migranti. Tali centri di raccolta sono ideali per attività criminali, come la tratta di esseri umani e traffico di migranti. Quando infine, spogliati di ogni bene e della salute, i migranti arrivano comunque in Italia.
Elaboriamo modi per minimizzare le nostre responsabilità, anche quando dividiamo i migranti in tipologie differenti.
I migranti forzati sì perché più disagiati, quegli economici no.
L’atto migratorio di per sé è uno sconvolgimento della propria esistenza, in quanto implica uno sradicamento dalla matrice sociale originaria. Dato che le persone sono determinate di lasciare i paesi di appartenenza, affrontando tale complicazione, rischiando a volte anche la vita, le giustificazioni serie ci sono a sufficienza.
Per questo, non sarebbe più giusto considerarli tutti “migranti forzati”?
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