Patrizia Caiffa
(da Islamabad) – “I talebani hanno promesso a mio marito che se mi trova può lapidarmi con le sue mani perché sono fuggita di casa dopo che mi ha picchiata. Mi sta cercando ovunque, non sa che sono qui”. Fatima ha 30 anni e una figlia di 3 anni. È vestita con cura, perché oggi è un giorno importante. Un velo grigio sulla testa, giacca di jeans, pantaloni e ballerine nere. La bimba viene fatta sedere un po’ distante, su una poltroncina, davanti ad un tablet con i cartoni animati. Sul tavolo, oltre ad un bicchiere d’acqua, gli immancabili fazzoletti di carta per asciugare le lacrime. Il doloroso passaporto di Fatima, oltre a quello reale, è un collage di foto sul telefonino in cui mostra il volto deturpato come prova delle violenze subite. Un occhio bendato, lividi ovunque, sul viso, sul petto. Un documento intollerabile alla vista, mentre il suo dolore tocca il cuore di chi la ascolta.
Come tante donne afgane è stata vittima di un matrimonio forzato con un uomo molto ricco. Fin dall’inizio ha subìto continui abusi e torture. L’ultima volta è stata pestata a sangue e ha deciso, con grande coraggio, di dire basta e andare il più lontano possibile.
Una donna, oltretutto con una bambina, non può passare la frontiera da sola. Perciò ha chiesto aiuto ad un familiare che ha condotto lei e la figlia in una città di confine, in Pakistan, poi lui è tornato indietro. Quando il marito ha saputo che il familiare aveva aiutato la moglie in fuga lo ha fatto arrestare dai talebani. Nella disgrazia Fatima (è un nome di fantasia per proteggerla dagli enormi rischi che sta correndo) ha avuto la fortuna di incontrare sul suo cammino una associazione che l’ha portata in una casa rifugio protetta per donne vittime di violenza, dove ha vissuto alcuni mesi.
Ora è ospite di una famiglia afgana ma in Pakistan non c’è un futuro per lei, senza un lavoro, via da un marito violento. Tanto più in questo periodo, con la decisione del governo pakistano di espellere 1.700.000 migranti irregolari, tra cui 1.400.000 afgani, arrivati anni fa o in seguito all’avvento al potere dei talebani nell’agosto 2021. Se non si hanno gli 800 dollari necessari per prolungare il visto l’alternativa è l’arresto. Oltre 300.000 afgani sono già fuggiti o stanno fuggendo in massa dal valico di Torkham, alla frontiera con l’Afghanistan. Di là non hanno più nulla, dovranno ricostruirsi una vita da zero, per di più sotto il regime talebano. Fatima ha familiari in Italia, tra cui una cugina arrivata con un precedente corridoio umanitario.
“Qui mangiamo una sola volta al giorno ma non so come sopravvivere. Devo andare. Mi hanno detto che il vostro Paese è sicuro”.
L’incontro con gli operatori di Caritas italiana, avvenuto in questi giorni in un hotel di Islamabad – con una mediatrice culturale afgana che traduce dalla lingua farsi all’inglese – è il primo colloquio previsto nell’ambito della lunga e complessa procedura dei corridoi umanitari. È la sua speranza di una nuova vita, come tanti altri. In un pomeriggio sono sfilate le storie dolorose di una famiglia che ha perso tutto e ora cerca un futuro per far studiare le tre figlie, un ragazzo gay, una coppia in cui la moglie giornalista e doppiatrice è stata arrestata e minacciata dai talebani se avesse ricominciato a fare il suo lavoro in tv, un giovane che lavorava per un politico famoso del precedente governo, anche lui arrestato e torturato.
Dalla prima intervista in cui gli operatori incontrano le persone, chiedono i documenti, fanno domande, ascoltano le storie, può passare molto tempo prima di riuscire ad imbarcarsi in un volo che li porterà verso la salvezza.
Prima c’è una lunga e complessa procedura che dura oltre sei mesi e vede tanti attori coinvolti in Italia e all’estero. Per i rifugiati ogni trasferimento dal Pakistan all’Italia è denso di incognite. Ad esempio, in questi giorni ad Islamabad si è sul filo del rasoio: a poche ore dalle prime partenze non sono ancora arrivati i permessi di uscita (a pagamento) richiesti al governo pakistano per tutti i
93 rifugiati afgani, tra cui intere famiglie con bambini.
Fino all’ultimo non si sa se qualcuno dovrà restare qui perché c’è l’exit permit.
“A volte è successo, ed è veramente doloroso e frustrante per loro e per noi”, racconta Oliviero Forti, responsabile delle politiche migratorie e della protezione internazionale di Caritas italiana. Nell’ultimo anno è stato a Islamabad cinque volte. Prima di ogni missione coordina i rapporti con il governo italiano che è firmatario con la Cei del Protocollo dei corridoi umanitari, oltre a tenere i contatti con l’ambasciata italiana in Pakistan. Si occupa inoltre di coordinare, sbrigare tutte le pratiche, fare le interviste ai candidati per i prossimi corridoi umanitari (se saranno aumentate le quote o firmati nuovi protocolli) e fornire a tutti quelli che partiranno questa settimana l’informativa pre-partenza. “Diamo loro tutte le informazioni necessarie su come si svolgerà il viaggio, cosa troveranno in Italia, chi li accoglierà”.
Il lavoro è imponente e non si ferma alle giornate in Pakistan. L’ufficio Caritas di Roma si occupa di contattare le Caritas diocesane per chiedere se hanno posti disponibili per accogliere e organizzare le procedure all’aeroporto di Fiumicino, coordinandosi con i ministeri competenti e in collaborazione con l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). Dopo continuano i contatti con chi li accoglie e viene seguita tutta la parte della rendicontazione necessaria.
In questa tornata saranno 15 le Caritas diocesane che li accoglieranno, più una famiglia privata.
Andranno a Belluno, Biella, Frosinone, Gaeta, Milano, Piana degli Albanesi, Pordenone, Roma, Savona, Sorrento, Tricarico, Udine, Ugento e Verona.
L’attuale Protocollo è iniziato a settembre 2022 ed è in via di conclusione. “Questo sarà uno degli ultimi arrivi della quota spettante alla Caritas italiana, ossia 300 persone – spiega Forti -. Le organizzazioni firmatarie hanno fatto richiesta al Ministero per una proroga ed un aumento di altre 200 quote, siamo in attesa in un riscontro”.
Dal 2017 ad oggi sono state portate in Italia in maniera legale e sicura migliaia di persone di varie nazionalità (soprattutto eritrei, sud sudanesi, afgani, siriani), provenienti da Libano, Giordania, Turchia, Pakistan, Etiopia e Niger nell’ambito dei Protocolli firmati tra il governo italiano, la Chiesa italiana (Cei), che opera tramite Caritas italiana, Fcei (Federazione Chiese evangeliche italiane), Arci, Comunità di Sant’Egidio.
Dopo il colloquio Fatima si rilassa un po’. Forti accompagna lei e la bambina a prendere un dolce al bar dell’albergo. La bimba punta il dito sicura e sceglie la torta più rosa. Come il futuro sperato.