Gesù Bambino e la nuova strage degli innocenti: dei bambini che stanno pagando senza colpa la brutale follia di nuovi spietati Erodi, e proprio nella terra del Principe della pace: piccoli israeliani ostaggi di Hamas e bimbi palestinesi morti o gravemente feriti sotto le bombe, privati di tutto e costretti ad una vita di stenti. Ma anche dei piccoli ucraini sotto la tempesta scatenata dai russi, e di tutti i bambini che vivono negli infiniti teatri di guerra del pianeta. Come annunciare la speranza e la luce del Natale di fronte al male assoluto e a tanta sofferenza innocente? Lo abbiamo chiesto a Eraldo Affinati, scrittore e insegnante romano, fondatore 15 anni fa con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati, oggi quasi 60 realtà su tutto il territorio nazionale.
Un Natale insanguinato. Se Gesù nascesse oggi, nascerebbe sotto le bombe e tra le macerie di Gaza?
Gesù è nato nel mondo così com’è sempre stato, non come vorremmo che fosse: questo è il grande tema della libertà. Noi esseri umani dobbiamo poter scegliere fra bene e male, altrimenti non saremmo persone vere, ma soltanto fantocci.
Le bombe e le macerie di Gaza sono il triste scenario dei nostri tempi, eppure nel fondo niente è cambiato rispetto a 2023 anni fa.
L’uomo resta potenzialmente malvagio e noi siamo sempre chiamati a prendere posizione di fronte alla violenza che scaturisce dalla brama di potere dei nostri simili: non possiamo restare indifferenti. Dobbiamo entrare in azione, anche rischiando di sbagliare: dopodiché il credente si rimette alla misericordia di Dio.
Fino a che punto le guerre alle porte dell’Europa ci coinvolgono?
Nessun uomo dovrebbe tracciare un confine divisorio assoluto fra sé e il mondo. “Non chiedere mai per chi suona la campana, essa suona per te”, scrisse il John Donne citato da Ernest Hemingway. Se riuscissimo a sentirci parte della medesima avventura esistenziale, avremmo interpretato anche il senso profondo del Natale inteso come rinascita della natura dopo la massima oscurità. I ragazzi, lo sappiamo, possiedono spesso più degli adulti questa coscienza ecologica planetaria dalla quale potremmo ripartire per sviluppare in loro il bene comune.
Come annunciare la speranza e la luce del Natale di fronte al male assoluto e alla sofferenza innocente di tanti bambini?
Dobbiamo ripartire sempre dalla persona che abbiamo di fronte, prima ancora che da un’idea astratta del bene. I bambini che ho la fortuna di vedere io sono quelli sopravvissuti alle stragi: il piccolo Ibrahim che gira scomposto fra i banchi della Penny Wirton giocando con il lego, curiosissimo e sempre in movimento; la neonata africana, in braccio alla volontaria, che mi stringe forte il dito, dopo aver viaggiato sul barcone nella pancia di sua madre, alla quale hanno dato un nome emblematico: Miracle!; Andrej, proveniente da Černivci, in Ucraina, una città dove io sono stato quest’estate. Non posso dimenticare Mascia, otto anni, di Karkiv, costretta a studiare nel bunker, come i suoi coetanei che da più di quattro anni (due di pandemia, due di guerra) non possono andare a scuola normalmente. Devono collegarsi da remoto.
Insegnare l’italiano a questi bambini per noi è un privilegio: sono loro la nostra luce nelle tenebre.
Maria, la donna e la madre che con coraggio e sapienza si fida di Dio, fugge profuga in Egitto per mettere in salvo il suo bambino e custodisce nel cuore emozioni e pensieri su quel figlio così speciale. Che cosa ci insegna? E come parla alle tante donne che oggi affrontano il mare, il deserto, i campi di detenzione, sopportano fame, sete e abusi per salvare i propri figli e tentare di dare loro una vita migliore?
Maria, anche se all’inizio, nell’incontro con l’angelo dell’Annunciazione, non comprende appieno ciò che le sta accadendo, decide ugualmente di sottomettersi alla volontà imperscrutabile di Dio. E’ un gesto emozionante perché va oltre la logica, chiama in causa il fondo oscuro del sentimento: se la fede non è questo, rischia di ridursi a un povero costrutto mentale.
Maria ci insegna il valore del sì alla vita. La sua fiducia sconfinata, illimitata, potente, umile e lungimirante, mi fa pensare alle tante donne che arrivano in Italia coi figli senza padre.
Magari questi piccoli sono il frutto di una violenza, non lo sappiamo, ma lo sguardo amoroso che ora ricevono dalle loro madri potranno, se lo vorranno, restituirlo ad altri quando saranno grandi. La maternità è in questo senso la massima propulsione vitale della specie a cui apparteniamo.
Giuseppe, l’uomo e il padre. Forte e al tempo stesso delicato verso Maria, un potente archetipo maschile per la nostra società di uomini spesso fragili e talvolta violenti. Un modello di paternità autorevole e controcorrente – nell’attuale società “senza padri” – silenzioso ma determinato nel proteggere la propria famiglia seguendo la volontà del Signore rivelatagli in sogno dagli angeli. Che cosa ci dice la sua figura?
Giuseppe rappresenta la dimensione universale della paternità: mentre la condizione biologica del padre è naturale, quella putativa va conquistata. Contano molto la famiglia e la scuola, i modelli sociali di riferimento, la cultura, i costumi. Dovremmo maturare la consapevolezza che
i figli non sono soltanto dei genitori che li fanno nascere e li allevano, ma dovrebbero essere anche della comunità in cui crescono:
i veri insegnanti vivono sulla propria pelle questa sensazione ogni volta che entrano in classe. Il discorso che il padre della povera Giulia Cecchettin ha tenuto al funerale di sua figlia è stato significativo perché ci ha fatto capire che una tragedia come quella da lui vissuta non andrebbe confinata in una sfera unicamente privata. Dovremmo condividerla tutti noi. E’ questo, a ben riflettere, il senso del carisma giuseppino.
Gesù ha scelto di nascere fragile, povero, escluso – “non c’era posto per loro” – profugo, insomma al di fuori di ogni schema prestabilito. Quale provocazione rappresenta ancora oggi la sua nascita?
Prima del cristianesimo Dio era spesso stato immaginato come un giudice severo al cui cospetto noi dovevamo soltanto inchinarci reverenti e timorosi. Lo scandalo di un Dio che si fa uomo, assumendo su di sé il peso del mondo e che s’incarna in un essere indifeso destinato alla sconfitta e al fallimento terreno ha cambiato la Storia, anche se troppe volte chi dice di credere dimentica la potenza che intimamente ognuno di noi custodisce in seno.
Gesù, nello scardinamento delle categorie di spazio e tempo, continua a tornare nella persona bisognosa in cerca di aiuto: nel momento in cui noi andiamo incontro alla sua richiesta, insieme al profugo accogliamo anche Lui.
Ma il Natale parla ancora ai giovani di oggi?
Purtroppo non sempre come vorremmo. La gran parte di loro, ammettiamolo, lo vive solo come una festa mondana.
E noi cosa possiamo fare?
Dobbiamo rinnovare il linguaggio religioso affiancando alle parole tradizionali, che non vanno abbandonate, nuove forme espressive, legate all’esperienza contemporanea. Solo così potremo far entrare gli adolescenti nella grotta di Betlemme.
0 commenti