Israel González Espinoza
Secondo il dizionario, la parola “martire” deriva dal termine greco che significa “testimone”. Se c’è una cosa che posso affermare categoricamente oggi, è che la Chiesa del Nicaragua sta dando una straordinaria testimonianza di fede incarnata, nella realtà di un popolo sottomesso a un giogo totalitario, che pretende falsamente di essere “cristiano”, mentre non rispetta tutte le libertà dei suoi cittadini.
Dall’inizio della grave crisi socio-politica che affligge il Paese centroamericano, a partire dall’aprile 2018, i cattolici nicaraguensi hanno dovuto affrontare 667 attacchi perpetrati dallo Stato e da civili simpatizzanti del regime di Daniel Ortega, secondo il rapporto “Nicaragua, una Chiesa perseguitata?” curato dall’attivista e avvocata Martha Patricia Molina.
Nello stesso periodo di cinque anni (2018-2023), 151 sacerdoti e 76 suore sono stati espulsi dal Paese dal regime nicaraguense, secondo un rapporto del collettivo per i diritti umani “Nicaragua nunca +” (“Nicaragua mai più”). Alla luce di questi dati, ci troviamo di fronte a quella che potrebbe essere una delle più dure persecuzioni mai commesse da un Governo latinoamericano contro la fede cattolica.
Le ragioni di questo attacco sistematico alla fede sono semplici. La Chiesa si è schierata dalla parte di coloro che chiedevano il ritorno alla democrazia dopo tre decenni di un Governo che non ammette alcun dissenso, che ha chiuso tutti i canali istituzionali per arrivare a un cambiamento e che ha commesso crimini contro l’umanità nei confronti dei suoi cittadini, come certificato dalla Commissione interamericana per i diritti umani (Cidh) e dall’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr).
In Nicaragua, le parole di Papa Francesco, che vede la Chiesa come un ospedale da campo, sono diventate realtà. Quando civili armati simpatizzanti del regime e la polizia hanno attaccato i manifestanti pro-democrazia, le porte delle parrocchie erano aperte, affinché la popolazione potesse ripararsi dai proiettili ed essere assistita fisicamente e spiritualmente. Il regime di Ortega non lo ha mai perdonato.
Parallelamente, i vescovi hanno agito come mediatori e testimoni in un dialogo nazionale tra Ortega e l’opposizione. La Chiesa è stata molto lungimirante, e ha proposto al Paese elezioni anticipate e un avvicendamento delle persone alla guida delle varie Istituzioni statali, per incanalare le richieste della popolazione attraverso metodi civili e costituzionali. Non hanno chiesto nulla per sé o per l’episcopato. In quel processo, hanno lavorato con la migliore disposizione d’animo per dimostrare che noi nicaraguensi potevamo risolvere le nostre dispute politiche senza violenza.
La risposta di Ortega e di sua moglie, la vicepresidente Rosario Murillo, è stata un attacco verbale ai vescovi, ai sacerdoti e ai religiosi, che ha suscitato una retorica anticlericale mai vista prima in Nicaragua. Assieme a queste parole, il regime di Managua giustifica la detenzione dei sacerdoti, l’assedio alle chiese, l’organizzazione di feste religiose parallele a quelle gestite dalla Chiesa, e persino l’espulsione delle suore che praticano la carità verso i più poveri.
Ciò che sta accadendo oggi in Nicaragua, può essere riassunto con nomi e cognomi. In particolare, mons. Rolando José Álvarez Lagos, vescovo di Matagalpa, trascorrerà il suo secondo Natale in una cella del penitenziario “Jorge Navarro”, per un’ingiusta condanna a 26 anni di carcere per il reato di “tradimento”.
Mons. Rolando, vescovo esemplare e cittadino coerente, ha avuto l’opportunità di andare in esilio in almeno due occasioni, e in entrambi i casi ha preferito correre il rischio di rimanere in cella all’ergastolo piuttosto che abbandonare i suoi fedeli. È, senza dubbio, un testimone della fede nel XXI secolo.
La testimonianza profetica della Chiesa del Nicaragua, incarnata oggi nella figura del vescovo imprigionato di Matagalpa, rappresenta l’amore, la speranza, la dignità e la lotta pacifica di un intero Paese. di fronte a una tirannia crudele e immorale.
I cattolici del Nicaragua, come i primi cristiani perseguitati durante l’Impero romano, pregano e resistono in silenzio, di fronte a un autoritarismo che vuole schiacciarli. E come quei primi testimoni di Gesù, sanno che il martirio e la croce sono semi di fede.
Il popolo nicaraguense e la sua Chiesa impegnata nella difesa dei diritti umani sono, oggi, crocifissi da un potere temporale oppressivo, ma sono certi che un giorno risorgeranno a nuova vita nella libertà dei figli e delle figlie di Dio.