Giuseppe Casale
L’espressione “terza guerra mondiale a pezzi”, coniata nel 2014 da Papa Francesco, riecheggia tra gli analisti dispiegando tutta la sua pregnanza. È innegabile: la nostra è un’epoca di conflitti disseminati eppur collegati in quanto a cause e corresponsabilità, effetti e rischi propagativi. È il lato oscuro di un’interdipendenza fatta di antagonismi locali ma intelligibili più chiaramente a livello globale. Nella trama si inserisce anche la metamorfosi della guerra, ibrida in relazione alle modalità, certo, ma anche rispetto agli attori: non più soltanto statuali, a dispetto dei postulati moderni.
Tutto ciò è ormai incontrovertibile, basti guardare al teatro ucraino e a quello israelo-palestinese, come pure alle vicende di Libia e Siria. Ma il mosaico si compone di molte altre tessere, che importa sommariamente ricordare per un surplus di consapevolezza sull’impossibilità di confidare nella protezione della mera distanza geografica.
In Africa 31 Stati e circa 300 gruppi sono coinvolti in conflitti.
Dell’instabilità irradiata nell’area subsahariana dall’anarchia libica ha profittato il radicalismo islamista, che ha reso il Sahel la regione più flagellata dal terrorismo jihadista. Le carenze governative nel fronteggiarlo hanno generato una sequenza di golpe militari, con il concorso della sfida russa nella sfera egemonica della Françafrique. Così in Burkina Faso, Mali, Niger. In Sudan il “golpe nel golpe” tentato dal generale Hemedti ha riattivato la guerriglia in Darfur, dove è in corso una migrazione di massa verso il Ciad, sospinta dalle violenze sull’etnia masalit da parte di milizie arabe e delle truppe Rsf. In Ciad, d’altronde, l’aggravamento della malnutrizione dovuta al blocco del grano ucraino riagita i fronti rivoluzionari della guerra civile chiusa nel 2010.
In Etiopia i governativi si scontrano con i separatisti dotati di sostegni esterni, prolungando gli strascichi della guerra del Tigrai (2020-2021) chiusa con oltre 500mila morti e 2 mln di sfollati.
Il governo della Nigeria viene impegnato da Boko Haram e dagli irredentisti del Biafra, mentre nella Somalia piagata dalle guerre civili (1986-2006) imperversano ancora i mercenari dei signori della guerra locali e le milizie al-Shabaab, in un coacervo di collusioni con potentati economici e mafie internazionali. Così pure nella Repubblica democratica del Congo, già al centro del cosiddetto Olocausto nero (1996-2003) con 5 mln di vittime. Nonostante la missione Monusco, oltre cento milizie prolungano la crisi umanitaria, con connivenze esterne interessate alle risorse estrattive (incluse le terre rare, fondamentali sul mercato dell’energia verde). Nel mentre il governo torna a minacciare il Ruanda, accusato di finanziare le incursioni dei paramilitari M23. Ma è di queste ore l’apprensione per gli scontri connessi alle presidenziali del 20-21 dicembre, svolte nel caos procedurale: lo spoglio, condotto con estrema lentezza, conferma la rielezione di Tshisekedi, cui le opposizioni reagiscono denunciando brogli e mettendosi sul piede di guerra.
Nelle Americhe del Centro e del Sud 7 governi e circa 40 tra cartelli del narcotraffico e milizie rivoluzionarie imbracciano le armi. Negli ultimi giorni, inoltre, si è accesa nuovamente la scintilla delle tensioni tra Venezuela e Guyana. A inizio dicembre Maduro, forte del risultato referendario, aveva rilanciato l’annessione dell’Essequibo, che con il lodo di Parigi del 1899 Usa, Russia e Regno Unito incorporarono nel territorio guyanese, allora colonia britannica. Caracas è tornata a eccepire l’illegittimità della cessione, rispolverando un accordo del 1966 e ricusando la competenza arbitrale affidata al Tribunale dell’Aia. La mobilitazione di un contingente venezuelano, nelle scorse settimane, aveva fatto temere per il peggio, ponendo in stato di allerta Guyana e Brasile. L’accordo di Argyle tra Maduro e il leader guyanese Ali è sembrato spegnere le fiamme, con l’impegno a risolvere la vertenza per via diplomatica. Tuttavia l’invio da parte di Londra della nave militare Hsm nelle acque guyanesi adesso viene denunciato dal Venezuela come una minaccia meritevole di reazione, per ora avviata disponendo un’esercitazione militare nei Caraibi.
In Europa, oltre alle vicende ucraine, anche l’incandescenza tra Serbia e Kosovo riflette le tensioni (sino)russo-americane.
L’Asia annovera 27 governi e circa 500 soggetti non statuali in stato di conflitto.
L’operazione-lampo dell’Azerbaigian ha appena dissolto il secessionismo del Nagorno-Karabakh, sino a ieri sostenuto da Armenia, Russia, Iran e curdi, contro le truppe azere rifornite da Turchia, Israele e Pakistan: rivalità incrociate le cui recenti riformulazioni (le intese russo-turche, il progetto Brics+ e l’avvicinamento armeno all’orbita Usa) spiegano l’esito “sacrificale” per cui dal 2024 l’area verrà reintegrata nell’Artsakh azero, con l’incognita dei rifugiati armeni.
In Pakistan, nella quiescenza delle frizioni con l’India per il Kashmir, restano attivi gli scontri con islamisti e separatisti che pungolano il Paese, piattaforma atomica degli Usa sulla direttrice delle proiezioni arabiche di Pechino.
L’Afghanistan di nuovo talebano saggia la resistenza in Panshir dell’Alleanza del Nord e le minacce del terrorismo di Isis-K, che muove dalla provincia iraniana di Khorasan accusando Kabul di intelligenza occulta con gli Usa in funzione anticinese.
Sul 38° parallelo resta congelato il conflitto tra le due Coree, nonostante le provocazioni di Pyongyang, mentre gli eserciti di Filippine, Indonesia, Thailandia e Nepal fronteggiano al-qaedisti e maoisti.
In Myanmar l’etnocrazia bamar guidata dalla giunta militare golpista è tornata alle pratiche genocidarie in danno dei rohingya e di altre etnie minori, i cui sfollamenti minacciano la stabilità dell’intera regione, su cui Usa, India e Cina si contendono l’influenza. Nelle ultime settimane l’Operazione 1027 condotta dalle forze interetniche è arrivata a sottrarre all’esercito governativo il controllo della maggior parte del territorio. La mediazione indonesiana sembra naufragata, anche per la difficoltà di trovare, nella congerie dei gruppi guerriglieri, un interlocutore unitario. La giunta, dopo averla accusata di sostenere i ribelli, ora torna a chiedere alla Cina di intervenire. E questa, pur ribadendo la non ingerenza, stante l’acuirsi degli scontri a ridosso del confine, per la prima volta ha formalizzato l’appello all’armistizio.
In Medioriente l’inferno di Gaza si intreccia con la guerra in Siria («il peggior disastro causato dall’uomo dopo la Seconda Guerra mondiale», secondo l’Alto Commissario Onu per i diritti umani), in cui imperversano gli scontri tra gruppi locali spalleggiati da potenze rivali, cui appunto si aggiungono gli attacchi israeliani contro le truppe sciite.
Il Kurdistan resta bersaglio delle forze di Ankara che, sradicando l’indipendentismo curdo, intende creare un cuscinetto securitario a sud, funzionale al disegno turco di prestarsi ad hub energetico d’Europa.
Il Libano patisce gli annosi scambi di fuoco tra Hezbollah e Israele lungo la Blue Line nonostante l’interposizione Unifil, scontando all’interno le ingerenze di Riad, Teheran e Parigi, nel quadro di un’ingovernabilità funzionale agli appetiti per i giacimenti di gas al largo delle coste, sinora improduttivi per via delle vertenze con Tel Aviv sui confini marittimi. Ma in queste ore l’attenzione è tutta rivolta alle pressioni militari di Hezbollah contro Israele, impegnato nei massacri nella Striscia di Gaza e nelle meno illustrate violenze in Cisgiordania.
Lo Yemen è tornato alla ribalta delle cronache per gli attacchi degli houthi contro le navi mercantili in transito nel Mar Rosso, volti a contrastare i rifornimenti a Tel Aviv e a incrementare, con il blocco della rotta per Suez, la pressione internazionale sul governo Netanyahu. L’operazione aeronavale Prosperity Guardian guidata da Washington a protezione del corridoio non pare intimidire i ribelli yemeniti, che si dicono intenzionati a cadenzare i raid ogni 12 ore anche a costo di subire i bombardamenti da parte di Usa e sodali. A monte serve ricordare che la guerra in Yemen, deflagrò sulla spinta delle Primavere arabe nel 2015, quando una lega a guida saudita prese a bombardare gli houthi, sciiti sostenuti dall’Iran. Diviso il nord ribelle dal sud governativo, il conflitto costituisce l’ennesima guerra per procura, in tal caso tra Teheran e Riad, con annessa emergenza umanitaria. La tregua del 2022, convalidata dal recente riallaccio diplomatico tra Arabia Saudita e Iran incentivato dalla Cina (in vista del Brics+), ha effetti ancora parziali stanti le iniziative di scontro tra gli antagonisti locali.
La rassegna è approssimativa, ma non conta il nudo dato quantitativo. Importano invece le connessioni. A causa loro, nonostante le narrazioni che fanno esistere solo ciò di cui si parla, la realtà rivendica le proprie evidenze. Negli auspici per l’anno che si apre, inseriamo pure il dovere di avvertirci responsabili, senza alcun alibi per l’ignavia o, peggio ancora, per le complicità dissimulate dai più improbabili rivestimenti ideologici. Il mondo per come oggi lo conosciamo non consente il lusso del disinteresse per le collegate sorti della famiglia umana.