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Vocazioni e università. Don Gianola: “Case in cui il Vangelo sia attrattivo”

Foto SIR

Giovanna Pasqualin Traversa

Dalla casa di Nazareth a quella di Cafarnao, per poi “creare casa” in Galilea. Si è snodato lungo questi tre passaggi il convegno nazionale vocazioni università 2024 che gli Uffici nazionali Cei per la pastorale delle vocazioni e per l’educazione, la scuola e l’università hanno promosso dal 3 al 5 gennaio a Roma. “Quando due innamorati si vogliono bene pensano ad una casa, e quando la famiglia cresce la casa si ingrandisce. La casa, inoltre, custodisce la speranza di un bene per sé e per gli altri, e ricorda che non si può vivere senza pensare che tutti gli altri fanno parte, come noi, di una casa comune”, ha detto il 3 gennaio, in apertura dei lavori mons. Giuseppe Baturi, segretario generale della Cei, riferendosi al tema dell’incontro, “Creare casa”. Tema che riprende un’espressione di Papa Francesco, al n. 217 dell’esortazione apostolica “Christus Vivit”, pubblicata all’indomani del Sinodo dei vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. “Casa intesa come spazio di accoglienza e relazioni all’interno delle quali si incarna e scorre la vita dello spirito”, e quindi “può fiorire una vocazione”, ha aggiunto don Michele Gianola, sottosegretario Cei e direttore Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni. Ma anche università come “casa”, ha chiosato Ernesto Diaco, direttore Ufficio nazionale per l’educazione, la scuola e l’università, definendo gli anni in ateneo una “stagione decisiva anche in ambito vocazionale, una stagione di scelte, assunzione di responsabilità e apertura di spazi di libertà: per molti giovani il luogo del discernimento”.

Tre giornate ricche di spunti. Dalla lettura delle dinamiche sociali e culturali di oggi proposta il 3 gennaio dal docente di sociologia Massimiliano Colombi (Istituto Teologico Marchigiano) alla riflessione a 360° sui legami della seconda giornata. Chiara Palazzini, ordinario di pedagogia e psicologia presso la Pontificia Università Lateranense, ha invitato a “privilegiare il territorio delle relazioni come ambito di impegno e di lavoro, cambiando le nostre percezioni e costruendo

relazioni autentiche e generative a servizio della promozione e della crescita integrale della persona”.

Foto SIR

Soffermandosi sul tema dell’educazione, Palazzini ha sottolineato il “ruolo fondamentale della comunità con la qualità delle relazioni che sa costruire. Non bastano genitori, scuola, parrocchia, centro sportivo: occorre tutta la dimensione comunitaria per costruire il patto educativo”. Nel suo contributo in video sul tema “conoscere”, Flavia Marcacci, docente di Storia del pensiero scientifico presso la Pontificia Università Lateranense, ha svolto una riflessione su un doppio binario: amare per conoscere e conoscere per amare. Conoscere, ha tra l’altro spiegato, è “una connessione certa, non accidentale tra le nostre credenze e la realtà”. E se la conoscenza scientifica è “una sorta di inveramento progressivo, un processo mai definitivo”, l’amore ci porta a “passare dalla conoscenza alla deliberazione, alla scelta, alla decisione su cosa fare e cosa non fare”.

Un invito alla “essenzialità e purificazione da distrazione e comfort che intontisce” è venuto da don Fabio Rosini, direttore dell’Ufficio diocesano per la pastorale delle vocazioni della diocesi di Roma, intervenuto sul tema “sentire”. Oggi, ha spiegato, i ragazzi sono “distratti, tirati, espropriati da mille impulsi”. “Per fare il discernimento giovanile, vocazionale – il monito del sacerdote -, bisogna mettere in atto un processo di purificazione”, di “liberazione da uno stato confusionale, per capire in mezzo a tante voci qual è la voce autentica”. Occorre insomma

“superare la montagna di spazzatura che si ha nel cervello”.

Ed ogni scelta comporta una perdita: “scegliere Cristo vuol dire perdere il mondo”, ma “chi sceglie Cristo anziché il mondo, avrà sia Cristo sia il mondo “, mentre chi “sceglie il mondo, non avrà né il mondo, né Cristo. Perderà Cristo per stare appresso agli intontimenti”. Per questo, “se vogliamo affrontare la pastorale giovanile e il discernimento, dobbiamo affrontare il tema dell’intontimento, del comfort che istupidisce” ma anche, in quanto sacerdoti, “dobbiamo avere una parola che taglia, che va al punto, che offre anche la possibilità di una rinuncia” perché “pensare di seguire Gesù Cristo a emissioni zero è impossibile; ci sarà per forza qualcosa che sanguina un po’”.

Cura di sé, degli altri, della vita, della natura, delle istituzioni sono i temi al centro della riflessione di Luigina Mortari, ordinario di pedagogia generale e sociale all’ Università di Verona, incentrata sul verbo “curare”. “Il prendersi cura costituisce la condizione fondamentale dell’essere umano, la sua essenza”, ha spiegato; tuttavia la cura “è una pratica, non un’emozione”. Attenzione e ascolto dell’altro; capacità di non intrusività, ossia di essere presente senza sostituirsi all’altro; delicatezza ma anche fermezza; rispetto, generosità sono le “azioni fondamentali della cura”.

Sulle sfide antropologiche e vocazionali sollevate dal postumanesimo si è soffermata oggi, terza e ultima giornata del convegno, Francesca Marin, docente di filosofia morale (Università di Padova). Inquietanti gli scenari delineati, in parte già in atto: crioconservazione di cadaveri, o esclusivamente delle loro teste, e in prospettiva trasferimento del loro contenuto neuronale su un supporto digitale; ampliamento a “nuovi sensi” e ibridazione uomo – macchina. Obiettivo, il superamento dei limiti umani in vista di una sorta di “perfezione” di fronte alla quale la filosofa si chiede:

“Meglio una vita perfetta oppure una vita buona, compiuta? Scegliamo la perfezione o il compimento?”.

In Galilea non andiamo con delle soluzioni, ma con nuovi orizzonti pastorali e antropologici”, ha detto questa mattina don Gianola, tirando le fila dei lavori. Con riferimento a postumano e cyborg il sacerdote coglie “una possibilità di incredibile annuncio vocazionale: l’orizzonte che discende dalla risurrezione del Signore esiste; c’è un mondo ‘altro’ al quale siamo chiamati; una destinazione, una prospettiva di domani che va oltre la storia”. Di qui invito ad

“avere parole, case, orizzonti e spazi nei quali il Vangelo possa emergere con attrattività”.

Per Diaco, “nella realtà del postumano ci vuole coraggio a presentare la prospettiva di un umanesimo integrale e trascendente” che dia “valore alla vulnerabilità e significato alla sofferenza”, ma è questa la “visione dell’uomo” da presentare. E poi: “apprezzare le differenze, accompagnare con cura, agire con coraggio”, secondo le indicazioni del Papa ai cappellani universitari.  “Quando si accompagnano i giovani con la vicinanza e quando si prega per loro – ha quindi assicurato – fioriscono delle meraviglie”, ma occorre rischiare, altrimenti “non c’è fecondità”. Di qui l’esortazione conclusiva:

“Non temiamo di rischiare per essere educatori fecondi”.

Francesca Marin – Foto SIR

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