Daniele Rocchi
“Preghiamo per un cessate il fuoco, per la fine della guerra. Vogliamo la pace per Israele, per la Palestina, la liberazione degli ostaggi, chiediamo che siano curati i feriti, che siano assicurate dignitose condizioni di vita ai civili coinvolti nella guerra. Se non ci sarà tutto questo sarà un danno enorme per israeliani e palestinesi”.
A 100 giorni dallo scoppio della guerra a Gaza, è questo l’appello lanciato, attraverso il Sir, da padre Gabriel Romanelli, parroco da più di 4 anni della “Sacra Famiglia”, l’unica parrocchia cattolica della Striscia di Gaza che sta dando rifugio a oltre 600 sfollati cristiani. Il parroco, di origini argentine, in Medio Oriente da 28 anni, attualmente si trova a Gerusalemme poiché dal 7 ottobre scorso, giorno dell’“esecrabile e orribile” attacco terroristico di Hamas, Israele ha bloccato tutti gli ingressi a Gaza e quindi non ha potuto fare rientro in parrocchia. Tuttavia è in stretto contatto con il suo vicario, padre Youssef Asaad, a Gaza. Padre Gabriel ha incontrato due giorni fa, nella Città santa, fa un gruppo di pellegrini della Diòmira Travel composto da 9 sacerdoti. Si tratta del primo pellegrinaggio italiano in Terra Santa dallo scoppio della guerra. Sono stati proprio questi sacerdoti provenienti dalle diocesi di Milano, Cremona e Piacenza i primi destinatari delle sue parole.
Nella gabbia di Gaza. “Gaza – ha spiegato il religioso, che appartiene all’Istituto del Verbo Incarnato (Ive) – è una gabbia dalla quale nessuno può uscire o entrare. Non vediamo il benché minimo segnale che indichi la fine o uno stop anche solo temporaneo della violenza. Le tante voci che riescono ad arrivare da Gaza raccontano di una popolazione ridotta alla fame, alla sete, senza medicine, senza un riparo, al freddo”. Gli aiuti umanitari che arrivano sono insufficienti a rispondere ai bisogni primari della popolazione. “Molti di questi Tir di aiuti – ha detto padre Gabriel – si fermano nella parte Sud mentre nella zona Nord, dove sono rimaste circa 400mila persone, arriva ben poco”. La parrocchia della Sacra Famiglia si trova ad al Zeitoun, quartiere orientale di Gaza City, proprio nella parte Nord della Striscia. “I nostri cristiani – ha aggiunto il parroco – non hanno voluto spostarsi al Sud come imponeva l’Esercito israeliano e hanno scelto di restare in parrocchia che adesso è circondata da macerie. Molte delle zone limitrofe, infatti, sono state colpite dai raid israeliani”. Si stima che siano oltre 60mila le abitazioni rase al suolo dall’aviazione di Israele, senza contare quelle danneggiate e rese inagibili.
Così restare “nella casa di Gesù” come hanno dichiarato gli stessi fedeli, “non è stata una scelta ‘romantica’, ma il frutto della loro grande fede provata da questi ultimi 16 anni di guerre, di tensioni, di stenti, di sofferenze, di dure condizioni di vita. Gesù – ha sottolineato padre Romanelli – è davvero il rifugio, la consolazione e il sostegno di questa piccola comunità”.
Prima del 7 ottobre a Gaza c’erano 1017 cristiani, di questi 135 i cattolici (suore e preti compresi, ndr.) e i restanti greco-ortodossi, su una popolazione di oltre 2,3 milioni di gazawi tutti di fede islamica. “Diciotto anni fa – ha ricordato – eravamo 3500. Tanti hanno scelto di emigrare. In queste settimane di guerra hanno lasciato Gaza circa 70 cristiani (quelli con doppio passaporto, ndr.) approfittando della tregua”.
Bilancio drammatico. Dopo 100 giorni il bilancio di guerra supera la cifra di 23mila vittime, decine di migliaia i feriti. I raid aerei hanno colpito anche luoghi di culto, come chiese e moschee. “Noi cattolici – ha affermato il parroco – lamentiamo la distruzione dell’Istituto scolastico delle suore del Rosario, il bombardamento della scuola della Sacra Famiglia e della casa delle suore di Madre Teresa dove erano accuditi anziani e disabili gravi. I greco-ortodossi la chiesa di san Porfirio con il vicino centro culturale. Dall’inizio della guerra la comunità cristiana conta 27 vittime”. Le ultime due risalgono al 16 dicembre scorso quando un cecchino, appostato sui tetti intorno alla parrocchia, ha sparato e “ucciso a sangue freddo”, come denunciato dal Patriarcato latino di Gerusalemme, “due nostre fedeli, Nahida Khalil Anton e sua figlia Samar Kamal Anton. Nahida madre di 7 figli, la maggior parte di loro sposati, aveva più di 20 nipoti. Era la mamma della famiglia cattolica più numerosa della Striscia di Gaza”.
Una piccola oasi. “In questi anni – ha proseguito padre Romanelli – abbiamo cercato di trasformare la nostra parrocchia in una piccola oasi dove i fedeli potessero trovare ristoro spirituale e materiale, sperimentare accoglienza e vita ecumenica grazie alla presenza di diverse associazioni composte da cattolici e ortodossi”. Questa oasi, oggi, accoglie oltre 600 sfollati. Convivere in queste condizioni, senza luce, acqua potabile, carburante, è stata l’ammissione del parroco, “non è facile e chiede tanta forza d’animo perché un conto è vivere nella propria casa con la famiglia, altra cosa è condividere, da un giorno all’altro, con altri nuclei familiari una piccola aula scolastica e un piccolo bagno con poca acqua”.
“Tra gli sfollati in parrocchia ci sono tante persone depresse perché hanno perso tutto, non hanno più nulla, hanno visto morire, figli, parenti, amici. C’è chi ha investito ogni suo avere, anche la liquidazione, per acquistare una casa nuova e adesso si ritrova con un cumulo di macerie e senza forze per guardare al futuro”.
Per dare un po’ di ordine a questa convivenza, il vice parroco, padre Youssef ha formato dei team che hanno vari compiti, dalla cucina, all’animazione dei bambini, dalle pulizie alla vigilanza. Il tempo è scandito dalla preghiera, con la Messa mattutina, il Rosario pomeridiano e la Messa serale.
“Nella preghiera troviamo la forza per andare avanti”
è la certezza di padre Romanelli che pure non nega “il pericolo che Gaza si svuoti dei cristiani. La Chiesa tuttavia, resterà e continuerà a fare del bene grazie all’opera dello Spirito Santo”. La certezza è che anche Gaza è Terra Santa dopo che su queste strade è passato Gesù, con la Sacra Famiglia, in fuga verso l’Egitto.
Pregare per una soluzione giusta. “La guerra – è stata la conclusione – ci sta mettendo a dura prova. In altri conflitti, molto più brevi, la possibilità di rialzarsi era concreta, magari con l’aiuto di parenti e di amici. Adesso però tutti hanno perso tutto, casa, lavoro, scuola, averi, moschea, chiesa, punti di riferimento familiari e parentali. Le case rimaste in piedi sono state derubate da sciacalli. Nessuno è più in grado di dare aiuto, ma solo di riceverlo”. Per padre Romanelli “una situazione così non porterà alla pace, forse solo a una vittoria materiale. Bisogna lavorare a una soluzione giusta non solo per Gaza ma per tutta la questione palestinese tenendo in debito conto il rispetto dei diritti umani di tutti, palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani, cristiani e via dicendo. Non dobbiamo alimentare il sentimento di vendetta”.
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