SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Proseguiamo, anche nel nuovo anno 2024, la nostra rubrica di interviste ai pescatori della nostra Diocesi, volta a conoscere la loro ricca storia e anche il pregevole servizio che offrono alla comunità con la loro raccolta dei rifiuti in mare. Un servizio encomiabile, sia in quanto gratuito, sia per l’impatto ecologico e sociale che ha la loro opera. Incontriamo oggi uno dei primi pescatori ad attuare questa attività di cura e custodia del Creato, Djibril Gueye, di origini senegalesi, che ha 68 anni e fa il pescatore da quando ne aveva 8.
Come è nato il suo amore per il mare?
Ho sempre svolto questo lavoro fin da bambino, anche quando ero ancora in Africa. Mio padre e mio nonno si dedicavano alla pesca in un porto nelle vicinanze di Dakar. Il mare mi è sempre piaciuto ed è stato per me sempre fonte di reddito. Non c’erano grandi opportunità di lavoro nella mia terra e la pesca mi è sembrata il mio sbocco lavorativo naturale, in quanto prosecuzione di quello che già facevamo in famiglia.
Quando e perché è venuto in Italia?
Sono venuto in Italia nel 2002, con un regolare contratto di lavoro garantito dal Governo Italiano in un periodo in cui si cercava di regolamentare i flussi migratori verso la vostra Penisola. Ho ottenuto un contratto in Sardegna per quattro anni. Poi, all’inizio del 2007, sono giunto a San Benedetto del Tronto e mi sono imbarcato sul peschereccio Umberto Padre. Sono stato molto fortunato a trovare subito un’occupazione, in quanto l’armatore Pietro Merlini già mi conosceva. Molti anni prima, infatti, Merlini aveva praticato la pesca atlantica come comandante dell’imbarcazione Stanislava, un peschereccio storico delle flotta atlantica. All’epoca la normativa senegalese, che disciplinava la pesca degli stranieri su acque locali, prevedeva che ci fosse all’interno dell’equipaggio almeno una componente locale e sulla nave comandata da Merlini c’ero stato io, quindi in quell’occasione mi aveva conosciuto ed aveva apprezzato le mie capacità lavorative. Quando sono giunto qui a San Benedetto del Tronto, mi ha subito accolto con gioia e io sono stato molto felice di ritrovare un volto amico in una città sconosciuta. Sono trascorsi ormai 17 anni e mezzo da quando sono giunto qui in città e continuo anche qui a fare sempre il pescatore, come faccio ormai da sessant’anni.
Come e quando è iniziata l’esperienza di raccolta della plastica in mare?
È dal lontano 2007 che facciamo la raccolta dei rifiuti a bordo. L’armatore Pietro Merlini è molto sensibile sull’argomento. Insieme al marinaio Marco Aloisi e al capitano Antonio Fanesi, facciamo la raccolta dei rifiuti a bordo e ogni giorno riempiamo quasi un bidone industriale. Anche se la normativa all’epoca non prevedeva alcun obbligo in merito alla raccolta dei rifiuti in mare, per noi questo tipo di servizio non è mai stato un fatto a discrezione personale, bensì una regola vincolante per l’intero equipaggio che tutti dovevamo rispettare. E, ancora oggi, così come si controlla il pescato, bisogna controllare anche i rifiuti. Purtroppo negli ultimi anni il problema dei rifiuti in mare, anziché diminuire, è aumentato. Ormai in acqua troviamo di tutto: barattoli, buste, addirittura vernici fresche che sporcano il pescato. Noi comunque non ci arrendiamo e continuiamo a fare quello che riteniamo un nostro dovere. Il mare, infatti, è la nostra fonte primaria di sostentamento, quella che ci permette di guadagnare per vivere una vita dignitosa, ed è anche un bene prezioso da lasciare ai nostri figli.
A proposito di figli, la sua famiglia è qui con lei oppure è rimasta in Senegal?
La mia famiglia è in Senegal. Ho una moglie e cinque figli. Uno di loro è in Italia, ha di 21 anni e si è da poco diplomato meccanico presso l’Ipsia di San Benedetto del Tronto. Finora in estate ha lavorato negli chalet della zona, mentre in inverno ha studiato. Ora deve trovare un’occupazione stabile per il suo futuro. Anche se i tempi sono incerti e di lavoro non ce n’è molto, io sono tranquillo perché so che mio figlio crescerà in un ambiente sano e accogliente. La nostra religione (musulmana), infatti, ha qualcosa in comune con la vostra (cristiana): non permette che ci sia una persona molto benestante e una che non può mangiare. Quindi c’è molta solidarietà tra noi Stranieri, ma anche da parte di voi Italiani. Anche se qualche volta c’è qualcuno che scherza in malo modo o dice qualche parola di troppo, posso dire che la maggior parte degli Italiani è gente buona, che apprezza e rispetta chi lavora, a prescindere dalla nazionalità. Il mare mi ha insegnato molte cose, tra cui anche stare insieme, collaborare ed aiutarsi a vicenda, anche se si è diversi per cultura e religione. Ognuno sul nostro peschereccio trova spazio per mangiare i piatti della propria tradizione culinaria o per pregare secondo le usanze e i tempi della propria religione. Questo vale per gli Italiani, per i Senegalesi e per qualsiasi altro membro dell’equipaggio a prescindere dalla sua nazionalità. Io mi trovo molto bene con i miei colleghi e con il mio capitano. Oltre alla paga, che è in linea con quella degli altri pescatori che svolgono le mie stesse mansioni, mi piace molto il fatto che nel nostro gruppo contino solo l’impegno nel lavoro ed il rispetto reciproco. Il nostro capitano, ad esempio, viene spesso ad aiutarci nelle operazioni di pesca, è umile e gentile e ci rispetta molto. Noi sappiamo che un buon capitano fa un buon equipaggio e che un buon equipaggio fa un buon capitano. Da questa reciproca responsabilità che ci sentiamo addosso, è nato negli anni un rapporto di amicizia e di stima che vale più di qualsiasi altra cosa.
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