di Pietro Pompei
I compagni dell’infanzia
“Vòta ci; vòta ci !” (Gira la ruota, ragazzo; gira la ruota!)
Domenico (Mimì, lo chiamavamo noi amici), aveva la mia stessa età, ma non crebbe come me fin dalla nascita. Io qualche piuma nel nido l’ho trovata, lui no; si è dovuto accontentare di un pagliericcio di foglie di granturco (le sfoje de rantòrche) posto su una branda fatta con quattro assi tenuti insieme da alcune strisce di stoffa dura, che veniva chiusa la mattina per rendere più spaziosa la cucina. I bambini non conoscono differenze sociali e, al di fuori di qualche dispettuccio, familiarizzano facilmente, trovano sempre un interesse che li accomuni. Io e Mimì abitavamo nella stessa via, là dove la città mantiene le strettezze antiche anche se la polvere mista a sassi è stata sostituita da un nero nastro di asfalto. A me misero un grembiulino bianco all’età di tre anni e mi mandarono a trascorrere le ore del mattino nell’asilo delle suore e Mimì attendeva pazientemente il mio ritorno, aggiungendo polvere su polvere ai pochi stracci che lo coprivano e spesso il suo volto narrava una mattinata di pianto in una trascuratezza che gli si leggeva tutta in due righe nere sotto gli occhi ed in un naso che non conosceva il fazzoletto. Mia madre non mi proibì mai di frequentare Mimì anche se poi dovevo sentire i suoi rabbuffi per l’inevitabile sporcizia che ornava i miei vestiti.
Un giorno mi misero un brutto grembiule nero ed un fiocco azzurro al collo e mi obbligarono ad iniziare a ripetere quelle odiose filastrocche e a perdere la pazienza dietro quelle migliaia di aste che non volevano mai raddrizzarsi. Con Mimì la sorte fu più crudele, perché, ad appena otto anni, dopo aver frequentato la prima classe elementare “alle Comunali” in maniera disastrosa, lo avviarono al lavoro più semplice che era quello di girare la ruota. Fu terribile quel pomeriggio, quando mi resi conto che Mimì non mi avrebbe più aspettato davanti casa per i nostri giochi e capii da mia madre (che non perdeva occasione per farmi notare la fortuna di essere nato in una famiglia senza particolari problemi) che l’età del gioco per il mio amico era finita.
I Funai a San Benedetto
I Funai allora erano sparsi un po’ in tutto il territorio comunale. Li ricordo nell’odierna Piazza San Giovanni Battista, altri chiusi tra il recinto dell’Istituto delle Battistine e la casa di Majenè; altri ancora li sentivo vociare tra la ferrovia e via Dari, subito a sinistra appena attraversato il Pontelungo o Pontino. Una schiera poi aveva trovato posto lungo le sponde dell’Albula (lu fusse) che apparivano segnate da tanti viottoli che stavano ad indicare un monotono andirivieni. E le stesse vie del paese, nei punti in cui si creavano spazi ed insenature, venivano utilizzate per fissare un paletto e porvi una grande ruota che veniva girata da bambini che talvolta sopperivano alla loro bassa statura, salendo sopra una grossa pietra. Fin dalle prime luci dell’alba era un vociare confuso; uno strillare: “Vòta ci; vòta”:ornato da comuni imprecazioni, e purtroppo anche da bestemmie. L’avvilimento di un lavoro disumano al caldo e al freddo, con quel continuo andare su e giù sputacchiando su un pezzo di felpa entro il quale il filo di canapa prendeva l’aspetto di spago, non lasciava spazio a nobili sentimenti; l’individuo dava all’inizio ad un abbrutimento che talvolta si completava nelle cantine. Ma se disumano era il lavoro del funaio, ancor più lo era quello dei ragazzi, costretti tutti i giorni a girare la ruota, attenti a che il filo non si spezzasse e riannodandolo prontamente appena ciò avvenisse.
Mimì segue il padre là “lu fusse”
Mimì aveva seguito lungo l’Albula il padre che era riuscito a trovare un viottolo ed aveva sistemato una modesta ruota per la lavorazione dello spago fino. Si era servito per alcuni anni del figlio del “Compare”, ma aspettava con impazienza che Mimì crescesse per non dover dividere la modestissima paga con altri. Nonostante i divieti di mia madre che non voleva che frequentassi quei luoghi dal linguaggio scurrile, riuscii a raggiungere il mio amico al lavoro. Il suo sguardo dovette essere di una pietà immensa, se ancora oggi suscita in me una compassione disperata. Aveva pianto di nascosto alternando ora una mano ora l’altra su quel rude ferro con i muscoli delle braccia indolenziti e le palme delle mani gonfie. Sapeva che non doveva mollare, così gli aveva detto il padre, perché sarebbe subentrata l’abitudine. La mia presenza aggravò la situazione del povero Mimì, infatti il padre per paura che lo distraessi incominciò ad inveire contro il figlio. Passarono i giorni e quel luogo assumeva per me un fascino e un attrattiva particolare. Appena potevo correvo dal mio amico ed anche il padre aveva accettato la mia presenza e mi permetteva talvolta di sostituire il figlio alla grande ruota. E le “ girelle” cigolavano, ora ad uno ora a due fino a quattro , quando i fili di canapa si trasformavano in spago, e si accumulavano durante il giorno per una misera paga che non era sufficiente per far vivere decorosamente una famiglia.
Giochi di ragazzi
“Vòta ci, vòta”. Non mancavano intorno, per noi ragazzi, motivi di interessi diversi e di particolare suggestione. Presso la grossa pietra che faceva anche dal sedile era sempre presente la gabbietta del passero caduto dal nido ed amorevolmente allevato, tanto che una volta libero rispondeva al richiamo del padrone, o quella del merlo o della gazza chiacchierona che ripeteva tutti i versacci cui era avvezza. Qualcuno sistemava nei pressi della ruota, un rudimentale pollaio con galline, papere, che razzolavano tutti il giorno per le campagne alla ricerca di un po’ di cibo. Mimì aveva un merlo meraviglioso che lo seguiva come un cagnolino e che eseguiva tutti i comandi e i versi del mio amico ed in cuore, lo debbo riconoscere, lo invidiavo per quel poco. Riuscivamo ancora a trovare un po’ di tempo per i nostri giochi, specie nelle ore subito dopo il pranzo, d’estate, quando il padre faceva il solito sonnellino all’ombra di un pioppo dopo il frugale pasto che consumava sul posto, mentre la moglie raccoglieva lo spago già “llisciate” con la “nnaspètte”. In quel poco tempo ci trasformavamo nel terrore dei tanti piccoli animali che avevano nelle erbacce del fosso il loro habitat preferito. La nostra più grande passione era la cattura delle lucertole che prendevamo col cappio preparato in cima ad una sottile pianta di avena. Eravamo pronti a studiarne tutte le abitudini e i movimenti, alle più piccoline aprivamo la bocca per vedere se sulla lingua era impressa l’effigie della chiave di San Pietro. Quante volte sono tornato a casa stanco e sudato dopo un’ estenuante caccia ai “rri” : gli scarabei d’oro eccitavano la nostra fantasia e li chiudevamo in scatole ricolme di petali di rose e fiori di sambuco. Dal nostro piccolo allevamento sceglievamo i migliori e dopo aver legato l’ultima zampa sinistra con un sottile filo, facevamo le gare di volo.
La morte del padre di Mimì
Tutto ciò finiva con l’estate e dopo un autunno piovoso che rendeva sempre più precaria la vita del funaio, si andava incontro all’inverno con i suoi freddi e i suoi geli. Le mani di Mimì erano tumefatte e piene di geloni. Si portava dietro un barattolo dove cercava di alimentare il fuoco di carbonella, ma serviva ben poco. Quanta pietà destavano nel coprirsi e quei piedi che sguazzavano dentro scarpe logore che mettevano in mostra calzini malamente rattoppati! E girava E girava quella ruota, spandendo intorno la condensa di un respiro affannoso. “Vòta ci, vòta”! E il padre insisteva in un lavoro impossibile senza mai sperare in un futuro migliore. Ma un giorno gli portarono via il padre, affetto da tubercolosi. Lo condussero al sanatorio di Ascoli Piceno. Al figlio dissero che sarebbe presto ritornato per riprendere il lavoro.
La morte di Domenico (Mimì)
Mimì rimase sotto padrone, perché il padre non tornò più. Crebbe nel continuo rancore di un lavoro mal pagato e che non era davvero sufficiente per lui e la madre. Non giocavamo più con le lucertole e con “i mosconi d’oro” e la gabbietta era rimasta vuota. Una tosse stizzosa incominciò a rendergli più penoso il suo lavoro. Poi la tosse aumentò tra le invettive del padrone che vedeva nello stato di salute del ragazzo un freno al proprio lavoro. “Vòta ci; vòta tesceche bbrotte”. Il lavoro inumano, il cibo ridotto, le malattie non curate avevano minato la salute del mio amico ed insinuato il mal sottile. Una delle ultime volte che lo vidi, si affaticava intorno a quel rude ferro della ruota con in testa il berretto di suo padre ed una giacca non certo della sua misura che lo faceva apparire uno spaventapasseri. E ridemmo a lungo, fintanto che lo permise la sua tosse soffocante. La tisi stava demolendo le ultime resistenze.
Con la cotta bianca della parrocchia della Madonna della Marina, lo accompagnai al cimitero, dopo essere rimasto immobile a guardarlo disteso nel suo pallore su quella branda con il pagliericcio di sfoje de rantorche”.
0 commenti