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Israele e Hamas: nel kibbutz di Be’eri, Bar Sinai “educare a vivere e non ad uccidere”

Kibbutz Be’eri (Foto Sir)

(Da Be’eri) “Sono rimasta chiusa nel ‘mamad’, la stanza fortificata di casa (obbligatoria in ogni abitazione israeliana, ndr.), da sabato pomeriggio fino alla sera del giorno dopo quando è arrivato l’esercito israeliano. Senza luce, senza acqua, senza cibo. Fuggiti solo con quello che avevamo addosso in quel momento. Tutto il tempo in silenzio per evitare di essere scoperti dai terroristi. La casa dei nostri vicini è stata messa a fuoco”.

Nili Bar Sinai (Foto Sir)

Mostra una mappa del kibbutz di Be’eri a circa 5 km dal confine con la Striscia di Gaza, Nili Bar Sinai, 73 anni, 50 dei quali trascorsi in questo kibbutz che suo marito Yoram, architetto, aveva contribuito a progettare. Per anni psicologa impegnata nel mondo delle carceri, prima dell’attacco Nili lavorava nell’archivio del Kibbutz.

Il Sabato nero. Mentre cammina la donna ripercorre le prime ore del 7 ottobre 2023 quando i terroristi di Hamas fecero scempio in quello che tutti qui oramai chiamano il “Sabato nero” di Israele: 1400 civili massacrati in diverse città del sud di Israele e 242 persone prese in ostaggio (ad oggi sono 136 quelle ancora nelle mani di Hamas, ndr.). Be’eri, con i suoi 1200 abitanti, è stato teatro di una delle stragi più efferate compiute quel giorno da Hamas: 97 morti massacrati, bruciati, mutilati, 30 persone sono state rapite, 20 sono tornate grazie all’accordo (deal) durante la tregua. Dieci sono ancora ostaggi, cinque dei quali sono stati uccisi durante la cattività. Un terzo delle case incendiate, vandalizzate, distrutte. Tra le vittime anche suo marito Yoram. Nel kibbutz c’è chi lo ricorda come un uomo amante dell’Africa, impegnato nello sviluppo rurale. Negli ultimi anni si era dedicato a piantare alberi per ampliare le aree verdi del kibbutz. “Sono arrivati i terroristi di Hamas mentre era in terrazzo intento a preparare il caffè e lo hanno freddato a  colpi di arma da fuoco” ricorda Nili.

Kibbutz Be’eri (Foto Sir)

“Sono andati casa per casa, buttando giù porte e uccidendo tutti quelli che vi erano dentro, uomini, donne, bambini, anziani. Urlavano e sorridevano mentre massacravano chiunque trovavano, forse in preda a droghe”.

Lo scempio. In questa casa – dice la donna con voce sommessa – hanno sterminato una famiglia intera, ben tre generazioni, nonni, figli e nipoti”. Davanti ad ogni abitazione devastata e annerita dal fumo, Nili si ferma e ricorda chi l’abitava, in una sorta di Spoon River di Be’eri: “Qui nel kibbutz abitavano persone che credevano nella pace, che si adoperavano per aiutare i gazawi perché tanti venivano qui a lavorare. Si prendevano cura delle loro famiglie. Tutti massacrati, alcuni bruciati vivi e resi irriconoscibili”. I kibbutznik, così vengono chiamati gli abitanti dei kibbutz, raccontano che i volontari di Zaka, l’organizzazione paramedica israeliana che si occupa del recupero dei corpi delle vittime, hanno impiegato giorni per dare un volto e un nome ai corpi. Sulle facciate delle case rimaste in piedi, piene di fori di proiettili, campeggiano striscioni con i volti delle vittime o degli ostaggi in mano ad Hamas. Si notano anche dei segni e dei numeri lasciati sui muri dall’Esercito israeliano, dopo la ‘bonifica’ del terreno da mine e bombe lasciate dai terroristi: “segnalano che la casa è stata messa in sicurezza. I numeri, invece, indicano le vittime rinvenute al suo interno”. Tutto intorno, sparsi ovunque, si vedono giocattoli, scheletri di biciclette, di passeggini, di altalene, bambole, palloni da calcio, vestiti diventati stracci, resti di utensili domestici. In alcuni punti si cammina sulle macerie delle case, accompagnati dalla puzza di bruciato che ancora si sente a distanza di oltre 3 mesi.

La rinascita. Oggi il kibbutz attende il ritorno dei suoi abitanti, molti dei quali sono stati evacuati negli hotel di Tel Aviv e del Mar Morto subito dopo l’attacco. Da un camion alcune persone scaricano dei mobili. Nili non nasconde il timore che molti non torneranno ma al tempo stesso è convinta che “Be’eri rinascerà più bello di prima. Ma prima occorre riportare la sicurezza e ricostruire ciò che è stato distrutto”. Perché di una cosa Nili è certa:

“saremo al sicuro solo quando Hamas sarà sconfitta”.

“Ho perso mia madre nel primo attentato terroristico palestinese contro i civili condotto nel 1973 nell’allora aeroporto di Lod (oggi Ben Gurion, ndr.). Dopo 50 anni siamo ancora lottando. Con tutti i soldi che riceve dai suoi finanziatori Hamas avrebbe potuto dare ai gazawi il meglio dell’istruzione, una vita migliore invece di costruire una Gaza sotterranea e insegnare ai bambini come uccidere. Questo vuole dire avere un destino segnato. Abbiamo bisogno di un cambio di politica, diversamente non avremo speranza per il futuro. Tutto, però – conclude Nili – dipenderà dalle donne, dalle madri, da come cresceranno i loro figli, da come li educheranno, se a uccidere o a convivere”.

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Categories: Notizie dal mondo
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