Tel Aviv, piazza degli ostaggi (Foto Sir)

Di Daniele Rocchi

(Tel Aviv) “Viviamo in un incubo senza fine”: parole pronunciate lentamente, scandite quasi lettera per lettera, perché siano comprese da tutti, soprattutto da chi deve fare anche l’impossibile – Governo, Comunità internazionale, diplomazia e agenzie umanitarie – per “riportare a casa adesso” i 136 ostaggi israeliani rapiti il 7 ottobre scorso da Hamas e ancora nelle mani dei terroristi.

Riportiamoli a casa adesso (Foto Sir)

“Riportiamoli a casa adesso” (Bring them home now!) è anche lo slogan che si legge inciso, in inglese e ebraico, nelle piastrine militari indossate al collo dalle famiglie degli ostaggi e che campeggia su striscioni e manifesti appesi in quella che tutti a Tel Aviv conoscono con il nome di Piazza degli Ostaggi. Un megaschermo situato proprio all’ingresso della piazza conta giorni, ore, minuti e secondi della prigionia degli ostaggi. Dentro un grande tendone gruppi di persone cantano e pregano di continuo per la loro liberazione. E per non dimenticarli, in mezzo alla piazza è stata anche allestita una lunga tavola apparecchiata, da un lato con piatti, posate bicchieri e fiori e dall’altro con resti di cibo e acqua sporca per indicare le drammatiche condizioni in cui versano nei tunnel di Gaza.

Il tormento. “Il nostro è un grande tormento” ripetono insieme Elad Sassi, volontario che collabora alla campagna delle famiglie degli ostaggi, Shai Wenkert, papà di Omer, 21 anni, rapito al Nova Music Festival e malato cronico, e Yoni Asher, marito di Doron Asher Katz e padre di due bambine di 2 e 4 anni, rapite nel kibbutz di Nir Oz dove si trovavano per far visita alla nonna, uccisa nell’attacco. Madre e figlie sono state rilasciate dopo 49 giorni di prigionia, in occasione della tregua concordata tra Israele e Hamas, mediata da Qatar, Egitto e Usa. “Ora le bambine si svegliano durante la notte, hanno paura, fanno domande, vogliono sapere se i loro rapitori sono in prigione e se la prigione è vicino alla loro casa” rivela Yoni.

Familiari ostaggi, da dx Elad Sassi, Shai Wenkert, e Yoni Asher (Foto Sir)

Olocausto e 7 ottobre. Il richiamo a non dimenticare è ancora più significativo perché giunge in concomitanza con il Giorno della Memoria che si celebra oggi, 27 gennaio. Il 7 ottobre, replica dell’Olocausto.

“La lezione dell’Olocausto, ‘Mai più’, non è stata compresa, perché sta accadendo di nuovo sotto gli occhi del mondo”.

“Durante l’Olocausto eravamo soli, non avevamo uno Stato e nemmeno un esercito. Il massacro del 7 ottobre è avvenuto nonostante la presenza di uno Stato e di un esercito. Dobbiamo restare uniti” avverte Yoni che cita dei numeri: “Il 7 ottobre 1.200 persone sono state uccise in 12 ore. Nei 12 anni di regime hitleriano venivano uccisi 1.400 ebrei al giorno”. “L’Olocausto è avvenuto prima della nascita di Israele – ricorda Shai -. Vogliamo vivere nel nostro Stato e se qualcuno ci attacca dobbiamo agire. Questa guerra non l’abbiamo cominciata noi. E non vogliamo invadere il Libano. Hamas vuole ucciderci ed educa i propri figli ad eliminare gli ebrei. Per la nostra sicurezza questa guerra deve andare avanti e gli ostaggi devono essere rilasciati senza condizioni”.

Lotta per non impazzire. Shai indossa una maglia bianca con la foto del figlio Omer. Ripercorre le fasi del suo rapimento, la corsa in auto per andare a riprenderlo al Nova Music festival, la telefonata da casa che lo avvisava che “Omer è vivo ma non è nella nostra terra”, le urla di disperazione, la rabbia, l’inizio di un incubo. “Ho visto un video in cui i terroristi di Hamas lo portavano via in mutande, picchiato e caricato a forza su una jeep – dice Shai – Omer soffre di una malattia cronica allo stomaco e ha bisogno di assumere medicinali per non aggravare le sue condizioni. Un ostaggio rilasciato da Hamas mi ha raccontato di aver visto Omer vivo, detenuto in un tunnel con altre 5 persone tra cui un bambino”. Notizie che mitigano, seppure di poco, la preoccupazione di Shai che è consapevole che “ad Hamas, Omer serve vivo. La speranza c’è sempre ma ogni giorno si lotta per non impazzire di dolore”. Come è accaduto a suo cugino: “Hamas gli ha ucciso la moglie e il figlio di 15 anni gettando una bomba all’interno della stanza blindata della casa. Mio cugino è sempre stato un pacifista. Era solito mandare aiuti, soldi, regali a Gaza, ora è diventato un fanatico estremista”.

Guerra psicologica. Le famiglie degli ostaggi lottano contro il tempo: “Siamo andati al Parlamento Europeo, da Biden, da Putin, abbiamo parlato con tanti diplomatici per chiedere aiuto per riportare a casa i nostri figli”. C’è anche chi, come la nonna di Omer, Tsili Wenkert, sopravvissuta all’Olocausto, ha lanciato un appello a Putin perché faccia qualcosa così come fece l’Armata Rossa quando liberò Auschwitz. “Non abbiamo più tempo, dobbiamo lavorare 24 ore su 24 sette giorni su sette. Bisogna agire” ribadisce Shai. La guerra è anche psicologica:

“Hamas e Qatar usano la propaganda e tanto denaro per negare ciò che è evidente a tutti. I filmati diffusi sono uno strumento di guerra”

denuncia Yoni. L’ultimo risale alla giornata di ieri: il video di Hamas si intitola “Il tempo stringe” e mostra tre donne che, parlando in ebraico, denunciano di essere state abbandonate dallo Stato il 7 ottobre e si rivolgono al premier Netanyahu perché ponga fine alla guerra e le riporti alle loro famiglie, “prima che diventiamo altri cadaveri”. Non aiutano le notizie diffuse dai media che parlano di abusi, violenze sessuali e degli stupri compiuti da Hamas durante l’attacco del 7 ottobre, di negoziati che vanno a rilento, di accordi svaniti in dirittura finale, di cessate il fuoco e tregua umanitaria difficili da raggiungere. “Chiedo solo – conclude Shai – che in questa Giornata della Memoria siano ricordati anche il massacro del 7 ottobre e gli ostaggi in mano ai terroristi di Hamas. Lo dico soprattutto ai giovani affinché scelgano di stare sempre dalla parte della verità”.

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