(Foto ANSA/SIR)

Maurizio Calipari

Marta (o qualunque sia il suo vero nome) è morta, di “suicidio assistito”, in una struttura “specializzata” di Basilea, in Svizzera. La cronaca ne parla in questi giorni, ma il fatto risale al 12 ottobre scorso.
Aveva 55 anni Marta, e un impiego in ambito scientifico a Torino. Purtroppo, una forte depressione la opprimeva da qualche mese, dopo che il suo figlio unico, adolescente, era deceduto (gennaio 2023) a causa di una malattia degenerativa. Per questo, Marta era seguita da uno psichiatra.
Un tale terribile dolore – forse il più intenso che la vita possa infliggere ad un genitore -, se non “metabolizzato”, può ingigantirsi tanto da portare anche al desiderio di morire, soprattutto se si è costretti a viverlo con le proprie risorse interiori deformate dalla depressione.E se attorno a noi, gli affetti e il sostegno non sono adeguati o sufficienti, quel desiderio oscuro cresce in modo abnorme, figlio di una condizione “patologica” di fatto.Marta stava probabilmente cercando una via di uscita, quando un’associazione che avalla – e di fatto promuove e gestisce – il suicidio assistito “raccoglie” il suo grido di dolore e, senza curarsi di interpretarlo a fondo, lo accompagna verso l’iter che porta alla morte procurata, collaborando attivamente allo svolgimento delle procedure previste dalla legge svizzera.
A quanto riportato dai media, i familiari – incluso il marito – non sono stati coinvolti dalla struttura dove Marta è stata “assistita” per suicidarsi, tranne per il fatto che, un’ora prima della morte, il suo avvocato ha ricevuto un sms da un numero anonimo, con le ultime volontà della donna: “Per favore, vai a casa, stacca le utenze, regala i miei vestiti in beneficenza e affida a mio marito l’urna con le ceneri di nostro figlio”. In compenso, quella clinica ha inviato al marito di Marta, a suicidio avvenuto, una mail, che però è finita nello spam della cassetta di posta elettronica dell’uomo. Dopo pochi giorni, l’uomo si è visto recapitare l’urna con le ceneri della moglie, con un certificato di morte che non ne riportava la causa. Fin qui i fatti riportati.

Non ci permettiamo di entrare oltre nella dolorosa vicenda umana di Marta e della sua famiglia, anzitutto per rispetto alla loro dignità, poi perché non abbiamo conoscenza di tanti tasselli di questa storia. Ma una breve riflessione nasce comunque dalla considerazione di alcuni elementi palesi e oggettivi di una simile situazione.
In genere, i sostenitori del suicidio assistito lo giustificano come possibile via d’uscita in caso di persone affette da malattie gravi, inguaribili o terminali, che causino sofferenze insopportabili (a giudizio della persona stessa) e refrattarie ad ogni trattamento.Ma Marta non aveva alcuna malattia particolare, oltre la pesante sindrome depressiva, scatenata dal dolore per la morte del figlio, e che però la medicina odierna avrebbe potuto curare e alleviare.Alcuni commentatori hanno descritto il suo come un caso di “grave sofferenza esistenziale” (existential suffering), analoga a quella sperimentabile in seguito ad altre pesanti malattie, e quindi ascrivibile tra i requisiti sufficienti per ricorrere al suicidio assistito. Dunque, traducendo in “semplifichese” questa visione valoriale, basterebbe che una persona soffra molto, anche solo a livello psicologico, per poter ricorrere all’opzione del suicidio assistito? Nel caso di Marta, per la perdita di un figlio adolescente.

Ma – ci domandiamo – che dire di chi è disperato, senza rimedio, per la perdita del lavoro? O di chi si sente irrimediabilmente “annientato” dalla fine di un amore intenso? O di chi ha visto tutti i sacrifici di una vita infrangersi all’improvviso per un imprevisto senza soluzione?E chi di noi, non ha sperimentato, almeno una volta nel suo percorso di vita, un tempo di sofferenza e di frustrazione per svariate ragioni?Forse, siamo tutti candidati al suicidio assistito, per di più garantito dallo Stato e a suo carico? O forse esistono sofferenze di categorie diverse (serie A, serie B, ecc…), che ci rendono diseguali e discriminabili? In tutta franchezza, è da ritenersi del tutto inaccettabile e ideologicamente deformato l’assunto che sancisce l’equivalenza tra “vita sofferente” e “vita non degna di essere vissuta”. La dignità personale, infatti, si esprime pienamente ed in maniera inalterata in tutti passaggi e le circostanze della vita, nella felicità come nella sofferenza.

Si aggiunga poi un’altra considerazione.Chi richiede di accedere al suicidio assistito, non dovrebbe manifestare questa sua volontà in maniera consapevole, stabile nel tempo, informata e libera? E Marta, in quanto persona affetta da una forma depressiva così pesante, era in condizioni di farlo?Qualcuno lo ha verificato? Perché, piuttosto, non si è invece dato spazio e tempo alla cura della sua patologia, visto che la medicina oggi ne ha i mezzi e le possibilità?

Che razza di società umana sarebbe quella che, anziché tendere la mano e supportare concretamente chi è in difficoltà, chi soffre, chi è malato, chi piange, chi è fragile, limitasse la cura solidale ad accompagnarlo verso il suicidio, seppur “assistito” e gratuito?

E poi, a pensar male, si fa peccato, ma a volte… si indovina! Un malevolo sospetto indirizza i nostri dubbi verso plausibili interessi economici che animano la fervida e remunerativa attività di strutture dedicate a “dare la morte” su richiesta, presenti in alcuni Paesi. Solo così, nel caso di Marta e in altri analoghi, si può spiegare la palese omissione o superficialità delle dovute verifiche e l’ostinato progressivo “isolamento del candidato” dai suoi legami affettivi e relazionali, fino alla messa in atto dell’atto suicidario assistito.
Ciao Marta, e scusaci se non abbiamo saputo aiutarti abbastanza nel tuo dolore!

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