Foto di Vincenzo Varagona

MONTEPRANDONE – Ieri, sabato 3 febbraio, in occasione della ricorrenza della festa in onore di San Francesco di Sales si è tenuto un incontro che ha visto la partecipazione di autorevoli giornalisti, con l’obiettivo di riflettere sulla pace.
Il pubblico presente al convegno ha potuto conoscere da vicino punti di vista competenti e appassionati come quegli di Massimo Veneziani, giornalista Rai, Asmae Dachan, giornalista e scrittrice, padre Alex Zanotelli, missionario comboniano e Vincenzo Varagona, presidente nazionale UCSI.
L’incontro è iniziato con una breve presentazione, da parte di padre Marco Buccolini, del Santuario di San Giacomo della Marca; luogo meta di pellegrinaggi che dal 2001 custodisce le spoglie del santo.
L’incontro è stato organizzato grazie all’impegno di Egizia Marzocco, presidente UCSI Marche e da Fernando Ciarrocchi.
Presenti all’incontro anche Beatrice Testadiferro, direttrice del giornale diocesano di Jesi “Voce della Vallesina” e delegata della Federazione Italiana Settimanali Cattolici delle Marche e Fernando Palestini, direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della diocesi di San Benedetto del Tronto – Ripatransone – Montalto.

Gli interventi hanno avuto come riferimento di partenza il tema della pace, declinato poi nella storia contemporanea e nell’informazione.
Quale informazione abbiamo oggi e come reagiamo alle terrificanti notizie di guerra?
“Ci siamo quasi assuefatti”, afferma qualcuno. “Accendiamo la televisione e, se non ci piace vedere immagini di guerra, cambiamo canale”, senza fare nulla per modificare la realtà, la tremenda realtà dei fatti che viviamo oggi.
Cosa possono fare i giornalisti affinché le cose cambino? Hanno questo potere? Se si, quanto?

Massimo Veneziani nella sua relazione parte dalla premessa che “bisogna parlare di pace”.
Anche quando ti trovi, (è lui si è trovato) come inviato testimone fisico della guerra. Credere nella pace è quasi un dovere.
Citando papa Francesco continua, “noi dobbiamo volere essere precursori di pace”. E, per poter parlare di pace in modo convincente dobbiamo andare a guardare la guerra da vicino, raccontarla in maniera autentica. Vedere come vengono distrutte le vite di persone e di come vengono buttate giù le case, dalle bombe. Descrivere l’odore acre della sofferenza e della povertà; “Dare voce alla rabbia, al dolore delle persone che vengono aggredite”. Raccontare tutte le guerre. Raccontare anche la vita degli immigrati nei centri di espulsione in Italia. Raccontare di come l’Europa ha accolto, a ragione, gli immigrati ucraini, ma allo stesso tempo ha eretto muri per altri migranti. Dobbiamo raccontare di come ai confini di alcuni stati europei abbiamo incontrato persone con i nasi rotti, con dei lividi e segni di maltrattamento sul corpo, con i telefonini rotti, persone che hanno raccontato di soldati che li hanno respinti a colpi di manganello. Infine, conclude, noi giornalisti non dobbiamo attribuirci chissà che poteri, ma abbiamo una grande responsabilità e cioè, quella di raccontare bene i fatti.
“Il tema della pace parte da ognuno di noi; dal nostro agire e dal nostro pensare, da come riusciamo a motivare alla pace le persone, le nuove generazioni”. Bisogna riuscire a stimolare le nuove generazioni alla pace, alla ricerca della pace, interviene Vincenzo Varagona passando la parola ad un’altra relatrice.
Asmae Dachan condivide il pensiero della pace delineato dal presidente UCSI dicendo che, nonostante sia un argomento “immenso, che possiamo esplorare in minima parte, un tema quasi utopico e retorico perché tutti vogliamo la pace. (…). possiamo e dobbiamo parlare di pace”.

In realtà, dice Asmae, “l’utopia è pensare che la situazione possa rimanere come è nel mondo adesso e che questa situazione sia la soluzione dei problemi; pensare altresì, che la violenza, la prevaricazione, il terrorismo possano portare alla soluzione dei conflitti e delle dispute tra gli esseri umani. L’unica certezza è invece la pace perché solo con la pace si costruisce, con la pace le persone possono essere messe allo stesso livello e con la pace si può guardare il presente ed il futuro”.
Però, aggiunge Asmae, abbiamo bisogno di decifrare la parola pace, il senso di pace. Le persone credono che la pace sia l’assenza di guerra. Abbiamo vissuto in Italia 70 anni senza la guerra e questo fatto ci dà un senso di pace, però possiamo davvero dire che siamo completamente in pace?
Noi i cronisti, che siamo, come ci ha definiti papa Francesco dandoci una grande responsabilità, “testimoni della realtà – coloro che scrivono la prima bozza della storia”, noi, aggiunge Asmae dobbiamo guardare ai titoli che mettiamo sui nostri giornali, quando i titoli urlano al degrado riferendosi alle persone che dormono in strada, e non per scelta loro (…) titoli come: bivacco, degrado, come queste persone si stessero divertendo”. Questa è la pace?
E ancora, vediamo il fenomeno delle baby gang che mettono in strada dei fili di nylon per provocare incidenti stradali; ragazzi che picchiano una persona senza fissa dimora fino a ucciderla. Questi comportamenti ci dicono che la nostra società non è in pace. Altre immagini che possiamo mostrare sono “i campi di detenzione” per stranieri; veri campi di detenzione per persone che non hanno commesso reati. La loro colpa è quella di non avere dei documenti. Facciamo l’esempio di un siriano che scappa dalla guerra. Non può avere un passaporto perché nessuno glielo da; (…) l’unica possibilità è quella di scappare con mezzi di fortuna. Qui noi, che termini usiamo per definirli? Clandestino, extracomunitario irregolare. Regolarizziamoli! Facciamo in modo di riceverli come è successo nel caso dell’Ucraina. Oppure, facciamo in modo di dare un documento a chi scapa dalla guerra. Un’alternativa la possiamo trovare. Invece no, condanniamo queste persone a vivere nei campi come nel famigerato campo di Moria chiamato anche hell (inferno) dove si vive una condizione disumana. Ed è in Grecia, nell’Unione Europea, nella culla del diritto moderno, dove i diritti e i doveri dovrebbero essere rispettati.
Questa non è pace.
Inoltre, quando parliamo di pace io penso sempre ai bambini.
Se potessi parlare con chi decide sulle guerre io suggerirei loro di ricordare come erano da bambini. Come era la loro infanzia? Hanno giocato con le bambole o a calcio? Sono andati a scuola? Credo che, se loro avessero avuto una vita difficile sicuramente adesso non vorrebbero la stessa vita per i loro figli.
Ci deve essere un cambiamento.
Stiamo diventando di una barbarie infinita anche nell’uso delle parole, ed in un clima tale è difficile avere la speranza. Molti la trovano nella fede, ma altrove è difficile avvertirla.
Noi, i giornalisti, possiamo raccontare i fatti, usando bene le parole. Il nostro lavoro ci porta ad avvicinare le persone che ci mettono nelle mani le loro storie. Questo è un onore ed una responsabilità. A volte ci viene chiesto di non pubblicare qualcosa e noi dobbiamo non pubblicare. Avere rispetto.
In conclusione, Asmae assicura di essere innamorata del suo lavoro e delle parole (anche se free lance) e ci spiega il significato di una parola araba che associa la parola diritto alla parola verità, come per indicare al giornalista due strade da intraprendere.

Secondo padre Alex Zanotelli infine, parlare di pace è – citando papa Francesco – “avere più spirito critico”. Anche lui si interroga su “come parlare di pace?” “Noi”, indica, “viviamo dentro un sistema economico-finanziario che produce impoverimento, miseria, fame”. “Oggi in Africa, ci sono milioni di persone che vivono nelle baraccopoli.” Lui stesso è stato per 12 anni a Korogocho, Nairobi in Kenya, nelle baraccopoli dove vivono 100.000 persone e sa cosa vuol dire l’impoverimento. “Tale sistema economico finanziario è nelle mani del 10% delle persone del mondo che consuma il 90% dei beni del pianeta. Allora ci si domanda, “come sia possibile che il resto della popolazione non si ribelli?” “La percentuale ricca si arma per proteggersi”, è la risposta. “Vengono spese ingenti somme per le armi necessarie a mantenere l’attuale stile di vita agiato e per accaparrarsi quello che non si ha.”
Quindi, parlare oggi di pace significa per padre Zanotelli affrontare il sistema globale in auge. Con questo sistema globale e con lo stile di vita che alcuni conducono rischiamo, come umanità, di cadere in due “precipizi”: uno si riferisce all’inverno nucleare, per un eventuale conflitto atomico, e l’altro si riferisce all’estate incandescente. Dobbiamo decidere cosa vogliamo fare con il nostro futuro.
Ecco che per parlare di pace bisogna necessariamente affrontare argomenti di questa portata, con lo spirito critico e costruttivo, per il resto ci sono “solo parole”.
È necessario che i giornalisti riescano col loro lavoro di informazione a fornire alle persone la conoscenza e la consapevolezza delle ripercussioni
La preoccupazione per padre Zanotelli è che i messaggi di fratellanza, di giustizia e di equità, di rispetto per la natura, non “passino” nelle comunità cristiane, che i fedeli, restino sordi agli appelli del pontefice in merito a pace, giustizia sociale ed ecologia.
Bisogna aprire gli occhi alle comunità cristiane sulle problematiche di tutto il mondo. Parliamo nei nostri giornali dell’Ucraina e della Palestina, ma ricordo che il Congo vive da sessant’anni una guerra dimenticata. Fare giornalisti vuol dire raccontare anche di loro.

La mattinata si è conclusa con una messa, seguita da un momento di convivialità.
Il pomeriggio è proseguito con la visita dei partecipanti al Museo presso il Santuario guidato dalla Dott.ssa Paolo Di Girolami, direttrice dei “Musei Sistini”.

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