Daniele Rocchi
(Tel Aviv) “Ho dedicato più di 30 anni della mia vita a cercare il dialogo con gli israeliani. E credo che questo tempo sia il miglior investimento che abbia mai fatto”. Si presenta così Samer Sinijlawi, attivista e politico palestinese, presidente del Jerusalem development fund (Jdf), organizzazione non-profit che si occupa di migliorare la vita nei Territori palestinesi occupati.
Per incontrarlo non poteva esserci luogo migliore del Rabin Center di Tel Aviv, che fa memoria di Yitzhak Rabin, il premier israeliano insignito nel 1994 del Nobel per la pace, insieme Shimon Peres e Yasser Arafat, per aver siglato l’anno prima gli Accordi di Oslo. Solo un anno dopo, 4 novembre 1995, Rabin fu ucciso dall’estremista ebreo, Yigal Amir. L’occasione un meeting promosso nei giorni scorsi dall’American Jewish Committee (Ajc).
Dall’intifada a dialogo. Lunghi anni spesi a dialogare con gli israeliani al punto che, scherzando, ma non troppo, aggiunge: “Sono abituato a incontrare qualsiasi israeliano che desideri conoscermi: di sinistra, di centro, di destra. A loro dico continuamente: ‘vi conosco meglio di quanto vi conosciate voi stessi, perché voi non parlate tra di voi, mentre io parlo con tutti voi’”. Samer ha alle spalle un lungo curriculum politico: a 15 anni, in strada, “a lanciare pietre ai carri armati” durante l’Intifada del 1987, detenuto per 5 anni nelle carceri israeliane da dove è uscito all’età di 20, segretario internazionale della Gioventù a Gaza e in Cisgiordania per il partito palestinese Fatah. Oggi è un oppositore del presidente palestinese Abu Mazen, “al potere da 60 anni”, perché, spiega,
“sono convinto che solo un cambio di leadership politica in Palestina e Israele possa aiutare il dialogo e la ripresa dei negoziati di pace”.
convinzione che si è rafforzata ulteriormente dopo l’attacco terroristico di Hamas ad Israele, avvenuto il 7 ottobre scorso e dopo la visita al kibbutz di Kfar Aza, situato a soli 3 km. dal confine della Striscia di Gaza.
La morte di un bambino è una tragedia. “Condanno tutto questo, è contro la nostra morale, non appartiene ai palestinesi ed è contrario all’Islam – dice senza mezzi termini Samer -. In questo conflitto non c’è una ‘Madre Teresa’. Nessuno di noi due, israeliani e palestinesi, può tracciare una linea rossa sul piano etico. Non faccio distinzioni tra la vita del bambino di Kfar Aza e quella del bambino di Gaza a un chilometro di distanza. Per me sono entrambi bambini e la morte di uno di loro è una tragedia. Ho imparato a versare le stesse lacrime per entrambi, perché sono un essere umano prima di essere palestinese o israeliano”. Per questo, sottolinea con chiarezza,
“Io non voglio uno Stato palestinese nato sui corpi di 1200 israeliani uccisi il 7 ottobre, non lo voglio”.
“Desidero ottenere quello Stato nel rispetto dei principi morali e del diritto”.
Samer ama parlare del futuro più che del presente o del passato. E il futuro per lui “è Tel Aviv, con cui dobbiamo lavorare per una svolta diplomatica e non la comunità internazionale”.
Narrazioni nuove. Non teorizza soluzioni ad uno o due Stati. “Dobbiamo scordarci della comunità internazionale e focalizzarci sugli israeliani. Se riusciremo a raggiungere i loro cuori e le loro menti, accadrà qualcosa di positivo. Diversamente, non otterremo nulla. Le adesioni di facciata che continuiamo a sentire da parte dell’Europa o, occasionalmente, da Washington, non serviranno a niente”. Servono invece “narrazioni nuove” di questo conflitto, spiega Samer, perché “stiamo trasmettendo ai nostri figli idee del tutto sbagliate. Per me, in quanto palestinese, è innanzitutto necessario impegnarsi e ammettere che gli ebrei hanno diritti storici su questa terra. Certamente non condivido la narrazione sionista secondo cui noi abbiamo lasciato questa terra. Essi la lasciarono per 3000 anni e poi vi fecero ritorno. Ma occorre che gli ebrei spieghino alle loro giovani generazioni che non sono mai stati soli. Ci sono sempre stati degli ‘altri’, e questi ‘altri’ siamo noi. In un modo o nell’altro,
nessuno può rivendicare un diritto esclusivo. Abbiamo entrambi una storia comune e se abbiamo una storia comune, dovremmo essere in grado di creare un futuro comune.
Ma dobbiamo iniziare a definire una narrazione condivisa che unisca i nostri giovani, in ambito educativo, nei media, ovunque”. A partire dall’Olocausto: “I palestinesi – rimarca Samer – devono essere a conoscenza dell’Olocausto la cui memoria va rispettata. Le diverse narrazioni conflittuali non ci porteranno da nessuna parte”. L’attivista è sicuro: “Dal dialogo potranno nascere nuove leadership e, quindi, anche il sorgere del ‘day after’, il giorno dopo, per Abu Mazen e Netanyahu”.
‘Day after’ per Gaza. Ma serve un “day after” anche per Gaza. Spiega Samer: “la nuova Autorità Palestinese dovrà essere capace di arginare ciò che è rimasto di Hamas, di prendere le chiavi di Gaza e di imporre, a chi resterà di Hamas, una permanenza demilitarizzata. Da palestinesi dobbiamo comportarci come uno Stato, riconoscerci come tale e successivamente dire agli altri adesso trattateci come uno Stato”. “La mia generazione che qui è nata – conclude Samer – conosce gli israeliani e possiede il Dna di questo conflitto la cui soluzione non dipende dalla discussione su un chilometro quadrato di terra da una parte e dall’altra. Chi si ricorderà di quel chilometro quadrato in futuro? È più importante salvare le migliaia di vite che stanno morendo da entrambe le parti. Questo vale di più di un pezzo di terra”.