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Piano Mattei. Mons. Carlassare (Rumbek): “Va bene investire ma creare ponti e progetti reali per aiutare l’Africa”

(foto: Christian Carlassare)

Patrizia Caiffa

“Ho l’impressione che l’Africa attiri l’interesse di alcuni solo quando si tocca il tasto investimenti. Certamente servono investimenti per pensare allo sviluppo, non voglio negarlo” ma, oltre a quelli, “c’è bisogno di un reale impegno delle istituzioni perché promuovano ponti di dialogo, formazione, e profonda conoscenza delle culture e dinamiche che ci sono in diversi Paesi. Il fenomeno migratorio non cambierà nei numeri, ma solo nella qualità, nella misura in cui avremo creato ponti e non muri”. È il parere di mons. Christian Carlassare, vescovo di Rumbek, in Sud Sudan, a proposito del Piano Mattei che il governo italiano ha annunciato per promuovere sviluppo in Africa e, indirettamente, frenare le partenze di migranti. Il missionario comboniano, di origine vicentina, era stato al centro delle cronache nell’aprile 2021, per essere stato ferito alle gambe in un agguato con colpi d’arma da fuoco prima del suo insediamento in diocesi. Fatti che oramai “ci siamo lasciati alle spalle – dice – Abbiamo camminato e continuiamo sulla via della riconciliazione. La comunità cristiana sta rispondendo molto bene”. In questi giorni è in Sud Sudan anche il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, ad un anno dal viaggio apostolico di Papa Francesco. Domenica 4 febbraio ha celebrato messa nella cattedrale di Santa Teresa a Juba e incontrato i vescovi, tra cui monsignor Carlassare. Una occasione per parlare della situazione nel Paese, tra povertà, afflusso massiccio di rifugiati dal vicino Sudan a causa del conflitto in corso e incertezza politica.

(foto: Christian Carlassare)

Dal Sudan sono arrivati in Sud Sudan almeno mezzo milione di profughi mentre il conflitto si inasprisce sempre più. Come state accogliendo queste persone e in che condizioni sono?
Il Sudan sta pagando il caro prezzo del rifiuto, da parte di alcuni gruppi, di avere un governo civile. Le armi non permettono il dialogo. Tutta una questione di potere. E il popolo viene schiacciato. L’Onu parla di 7,5 milioni di sfollati interni. Aumentano i rifugiati, soprattutto dopo l’espandersi del conflitto. In Sud Sudan i rifugiati non trovano tante opportunità. Arrivano principalmente via terra nella regione dell’Alto Nilo e lì si trovano solo a metà dell’odissea, perché da lì cercheranno di raggiungere la capitale o i loro territori di origine. I mezzi di trasporto sono molto poveri in Sud Sudan e le comunicazioni difficili. Spesso rimangono bloccati per settimane vivendo situazioni estremamente difficili. La diocesi di Malakal si è mossa soprattutto attraverso la Caritas diocesana e la presenza delle parrocchie nel territorio.

I sudanesi arrivano anche nella diocesi di Rumbek?
Rumbek ha accolto un considerevole numero di famiglie che stanno cercando di re-inserirsi. Cosa non facile dopo anni di assenza. E dopo aver perso tutto. Le nostre parrocchie sono aperte ad accogliere quanti arrivano e integrarli nel percorso delle comunità cristiane. Ci sono programmi di sostegno alle famiglie particolarmente vulnerabili.

In questi giorni il cardinale Czerny è da voi. Ad un anno di distanza quali frutti della visita del Papa, a livello pastorale e sociale?
Durante l’incontro ci siamo chiesti cosa possiamo fare noi vescovi per promuovere la riconciliazione, il rispetto per la vita e la dignità umana, la giustizia e la pace. La nostra missione corre davvero il rischio di diventare un continuo fare, fare, fare. Ma un fare senza speranza. Bisogna anche fare bene, e fare il bene che è la giustizia. Io credo che la visita del Papa abbia portato tanta speranza ed energia sia nella gente, sia nelle nostre comunità cristiane. Si tratta ancora di dirigere questa energia nella giusta direzione per superare prove importanti, senza paura di incontrare ostacoli.

Il cardinale Czerny con i vescovi sudsudanesi, tra cui mons. Carlassare. (foto: Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale)

Il cardinale vedrà anche la barca della Caritas di Malakal che aiuta i rifugiati sudanesi: che tipo di lavoro sta svolgendo?Sì, la barca è un progetto finanziato da Misereor. Inizialmente spostava cibo e facilitava le distribuzioni lungo il territorio attraversato dal Nilo di questa vastissima diocesi. La barca continua a fare questo servizio ora soprattutto a favore dei rifugiati, e ha aggiunto un servizio navetta per aiutarli a raggiungere diverse località dell’Alto Nilo fino alla città di Malakal, dove sono disponibili più servizi. Riesce a trasportare fino a circa 500 persone ogni viaggio.

Com’è la situazione politica, c’è vera pace in Sud Sudan? Si riuscirà ad andare ad elezioni a dicembre?
Il gruppo di governo sembra piuttosto stabile. Pur sperimentando tensioni in qualche area del Paese, generalmente c’è tranquillità. Ma la pace è molto di più. Come può esserci vera pace dove regna povertà e dove la qualità della vita è così bassa? La gente certo è forte, ma merita di meglio. Riguardo alle elezioni, crescono i timori che possano riaccendere astio e divisioni nell’ambito politico. Già si sente dire che il gruppo al governo deve continuare. Altri vogliono rispettare l’accordo di pace che prevede le elezioni per legittimare chi sarà votato a governare. A meno di un anno dalle elezioni permangono alcune pietre d’inciampo: un terzo della popolazione è sfollata o rifugiata. Potrà votare? Ancora non si è eseguito il censimento per determinare il numero di votanti, e in quali regioni o collegi dovranno votare. Sembra che manchino i fondi sia per il censimento che per le votazioni. E poi rimangono alcuni nodi legati all’accordo sulla reale unificazione dell’esercito nazionale, la presenza di milizie, tante armi in mano anche a civili, territori abbandonati o occupati da gruppi rivali. Insomma, elezioni democratiche ci potranno essere solo quando la popolazione sarà davvero riconciliata, avrà superato le divisioni o pregiudizi etnici, avrà imparato a condividere le risorse per costruire insieme una società più giusta e fraterna. E per questo il cammino sembra lungo. Bisogna prima di tutto fare il primo passo, partire da alcuni esercizi importanti di democrazia.

Il governo italiano ha lanciato il piano Mattei per aiutare l’Africa e dissuadere le partenze ma è stato criticato da più parti. Come vede questa iniziativa dal punto di vista dell’Africa?
Ho l’impressione che l’Africa attiri l’interesse di alcuni solo quando si tocca il tasto investimenti. Certamente servono investimenti per pensare allo sviluppo, non voglio negarlo. Ma gli investimenti non mancano in Africa, non sempre così puliti, non sempre di reale beneficio alla popolazione. Le parole di Faki Amhamat, presidente della commissione Ua, dicono tutto ribadendo “la libertà di scegliere gli alleati liberamente, senza doversi allineare a un blocco rispetto a un altro, senza imporre nulla e senza che nulla sia imposto a noi”. Come pure il fatto che l’Ua “avrebbe preferito essere consultata”. L’Africa stessa vuole avere voce e potere decisionale su ciò che la riguarda. Certo i rappresentanti di alcuni Paesi africani erano presenti al summit con tante imprese italiane pronte a raggiungere accordi. Molti altri Paesi erano assenti, tra cui il Sud Sudan per esempio. Forse non sono stati coinvolti sufficientemente. E l’imprenditoria africana? E chi ci lavora in Africa? Per esempio le organizzazioni non governative italiane da anni presenti nel continente? Quali sono i progetti che favoriscono una crescita sociale ed economica reale? Per questo, oltre agli investimenti, c’è bisogno di un reale impegno delle istituzioni perché promuovano ponti di dialogo, formazione, e profonda conoscenza delle culture e dinamiche che ci sono in diversi Paesi. Il fenomeno migratorio non cambierà nei numeri, ma solo nella qualità nella misura in cui avremo creato ponti e non muri.

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