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Intervista ad Asmae Dachan, scrittrice e giornalista: “Parlare di pace oggi è un atto di grande resilienza”

Asmae Dachan – scrittrice, giornalista

Per presentare Asmae Dachan in maniera esaustiva, mi dovrei dilungare oltremodo e non sarei comunque esaustiva. Pertanto mi limito a ricordare che ha ricevuto nel 2019 il titolo di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, insieme a tanti premi in molti ambiti sociali, culturali e religiosi: premio per la pace, per meriti culturali e giornalistici, per la condizione femminile, per i diritti umani, per il dialogo interreligioso.

Dotata di un bagaglio culturale e professionale che comprende la laurea in “Editoria, Informazione e Sistemi Documentari” e successivi studi di Etnopsichiatria e Psicologia, sostenuta da una singolare sensibilità, curiosità e volontà di giustizia sociale, Asmae Dachan gira l’Italia ed il mondo per far conoscere e cercare una soluzione alle problematiche contemporanee.
Asmae non parla molto della sua vita familiare, preferisce porgere il suo sguardo sull’altro. Si sa di lei che è nata in Italia, da genitori emigrati dalla Siria prima della guerra, appartenenza che la stimola e la coinvolge nel miglioramento del destino attuale della Siria e dei Siriani.

Il contesto in cui incontro Asmae è un evento sul tema della pace e sull’approccio giornalistico a questa narrazione. Allora chi meglio di lei – inviata in varie zone “calde” del mondo – può raccontarci la pace?

Parlare di pace in questo momento ha un senso? Non è, per dirla con un’espressione tipica italiana, parlare al vento?
Sicuramente parlare di pace, di fronte agli scenari che abbiamo davanti agli occhi, è un atto di grande resilienza e coraggio, perché tutto intorno a noi parla di guerra, di violenza e di odio. Come se non ci fosse più speranza per l’umanità e come se quella fosse l’unica via percorribile. Quando parliamo di pace, veniamo definiti idealisti; io, invece, penso che parlare di pace sia una necessità, unica via possibile per la salvezza di tutti. Pensare che le guerre e le violenze siano la risoluzione ai problemi dell’umanità vuol dire condannarsi ad una fine impietosa. Ci vuole coraggio oggi a parlare di pace, perché a volte ci si sente soli, ma, come i salmoni che risalgono la corrente, sappiamo che è necessario farlo e non bisogna mai mollare.

Focalizzarsi sulla pace è dunque una presa di posizione scomoda, “contro corrente” – l’ha definita lei – si preferisce la guerra. Oggi infatti vediamo il susseguirsi di numerosi conflitti. Cosa spinge i promotori di queste guerre a tali soluzioni?
Il motore principale è la sete di potere. Non c’è guerra al mondo che non abbia la logica del potere, della sopraffazione di un popolo su un altro, logiche di conquista di territori. Poi, per la giustificazione si trovano tante “coperte diverse”, come le religioni, le diverse etnie, ma sappiamo tutti che questi sono solo dei pretesti. Nei contesti dove coabitano persone di religione, etnia e cultura diverse, ma dove tutti hanno gli stessi diritti, si vive in pace. Quindi bisogna anche smantellare questa narrazione manichea per cui ci sono solo due vie percorribili: o la guerra o la fine. Esiste una serie di soluzioni, che portano alla pace, che non è solo l’assenza della guerra, ma è anche la giustizia sociale, l’armonia tra le varie popolazioni e, all’interno della stessa popolazione, l’armonia tra l’uomo e la donna, all’interno della famiglia e della società. Dunque, la pace è a più livelli.

La pace non è un ideale e chi la persegue non è un’idealista, ma è un costrutto possibile, mi sembra di capire dalle sue risposte. Con questa premessa, se potesse parlare con qualcuno dei potenti che invece la fomenta, cosa gli direbbe per farlo desistere?
Gli chiederei cosa desidera per i propri figli. Oppure domanderei: “Cosa hai vissuto da bambino?”. Perché, chi ha vissuto un contesto di pace e di tranquillità e desidera lo stesso per i propri figli, dovrebbe capire che loro possono vivere questa condizione solo se tutti i figli di questa umanità la vivono. A coloro che hanno vissuto in un contesto di guerra direi di mettersi una mano sulla coscienza e capire se davvero vogliono che i loro figli e i figli degli altri vivano le loro stesse tragedie, o se sia meglio evitare che altri bambini vivano l’incubo e il terrore della guerra. Quindi, chiederei loro semplicemente di ricordarsi della loro umanità, di come la pace sia necessaria e l’unica strada percorribile.


A proposito dell’umanità, abbiamo informazioni da più fronti sullo sterminio di Gaza. Come si fa a tollerare tutto ciò? Chiudiamo gli occhi oppure siamo impotenti?
Credo che gli occhi e la coscienza camminino insieme. Chiudendo gli occhi, chiudiamo anche la nostra coscienza. Ma oggi non è più possibile fare finta di niente perché abbiamo tutti davanti agli occhi le immagini di Gaza. Tutto quello che ci arriva dai giornalisti, dai medici, dai citizen journalists (giornalisti cittadini) che raccontano quello che avviene negli ospedali è il quadro di un genocidio. Anche se i politici non si mettono d’accordo sull’uso di questa parola, siamo davanti ad un genocidio che vede metà delle vittime bambini, non imputabili di essere criminali o sospetti di chi sa che cosa.


Quale approccio possono avere i giornalisti nel trattare notizie di guerra, anche per essere credibili?
Io credo che in questo momento sia necessario per il giornalismo tornare a fare bene la propria professione e cioè non fare propaganda. I giornalisti devono tornare a raccontare i fatti e poi, l’atteggiamento e la presa di posizione lasciamola ai lettori. Non dobbiamo prendere una parte e fare il tifo per quella, ma allo stesso tempo, non dobbiamo fare censura. Per ristabilire una credibilità, noi giornalisti, di fronte ad una guerra come questa, siamo chiamati a raccontare semplicemente i fatti, quello che sta accadendo. E quello che sta accadendo purtroppo è terribile. Dobbiamo metterci una mano sulla coscienza e pensare ai bambini che sono ancora ostaggi dei terroristi e ai bambini ostaggi delle bombe. I bambini sono tutti uguali. Hanno tutti bisogno di pace. Solo in questo modo avremo una narrazione pulita e riusciremo a dormire la notte senza sensi di colpa. Finché chiudiamo gli occhi oppure ci accodiamo ad una narrazione che dà solo voce ai potenti di turno, la nostra coscienza non sarà in pace.


I giornalisti bisogna che raccontino i fatti – ha detto -. Quali fatti vengono raccontati oggi circa la Siria? Perché non si hanno più molte notizie?
Ringrazio per questa domanda. La Siria è una delle tante guerre dimenticate dal mondo. A Marzo si compiranno tredici anni dall’inizio della guerra in Siria. Tredici anni in cui il paese è stato bombardato, è stato distrutto, è stato depredato della sua popolazione. Sui ventidue milioni di siriani che abitavano in quel paese prima della guerra, secondo l’Onu, oggi ce ne sono sette milioni e mezzo fuori dal paese e altrettanti sfollati interni. Quindici milioni di Siriani che vivono fuori dalle loro case e le loro case sono prese da altre popolazioni, soprattutto dall’Iran, che sta colonizzando effettivamente la Siria. Oggi in Siria si bombarda sporadicamente, non più come prima, ma è stata consegnata all’oblio dalla comunità internazionale. Non è un paese in pace, perché la pace – come dicevo prima – non è solo l’assenza della guerra. Finché ci saranno quindici milioni di Siriani sfollati e di persone che non possono tornare nelle loro case, non possiamo parlare di pace. Finché ci saranno carceri piene di oppositori politici, non possiamo parlare di pace. Finché i bambini non potranno tornare a scuola, non ci sarà pace. Finché non saranno portati a processo tutti coloro che si sono macchiati di crimini contro l’umanità, non si potrà parlare di pace.


Se dovessimo cercare uno spiraglio di speranza per il futuro della Siria, dove lo troveremmo?
La speranza è sicuramente nella grande umanità e nella grande dignità del popolo siriano, che è fratello del popolo ucraino, fratello di tutti i popoli che vivono in guerra; è nei civili che non si macchiano con il sangue della guerra; nei civili che resistono con grande dignità e che fanno di tutto per dare ai bambini una vita più normale possibile, cercando di costruire scuole nelle tendopoli, nelle baracche, educandoli alla pace e non alla logica della vendetta. La speranza viene anche dai Siriani della diaspora, che si stanno rivolgendo ai tribunali internazionali per portare i criminali che hanno ucciso, stuprato, depredato la Siria e i suoi abitanti, di fronte alla giustizia internazionale. Non lo possono fare in Siria,  perché c’è ancora il regime, ma lo possono fare nei paesi europei dove si sono rifugiati, portando i nomi ed i cognomi dei loro carnefici.


I Siriani della diaspora possono condizionare in qualche modo la politica in Siria?
Non possono influenzare direttamente la politica, ma possono influenzare la giustizia e la società civile e, a sua volta, la società civile potrebbe avere un peso nelle decisioni dei politici. Bisogna partire dal basso, dalla voce del popolo.


Grazie per le riflessioni offerte!
La forza di tutti i popoli è la società civile. La società civile che può demolire o può costruire. Per costruire, però, serve la pace. Non c’è un’alternativa.
Facciamo del nostro meglio per dimostrare avversità e riluttanza alla guerra e, ragionando sul significato di pace, vediamo se possiamo fare qualcosa, affinché si concretizzi, prima intorno a noi, nelle nostre società e nelle nostre famiglie.

Ana Fron:

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