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Elemosina, preghiera e digiuno: un programma ben oltre la Quaresima

foto SIR/Marco Calvarese

Di Dionisio Candido

Ogni anno all’inizio della Quaresima viene offerto alla meditazione un brano del Vangelo di Matteo, tratto dal capitolo 6, in cui Gesù raccomanda l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Quello che desta subito l’attenzione di chi ascolta quelle parole è che per Gesù la fede è anzitutto etica, e non soltanto dottrina. In altri termini, si è credenti perché si fanno gesti concreti coerenti con la propria fede. Su questa scia, l’autore della lettera di Giacomo dirà: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere?” (Gc 2,14). Insomma, la fede cambia la vita, modifica i comportamenti: se così non è, c’è un cortocircuito o illusione o falsità.
Quando Gesù propone di fare l’elemosina, di pregare e di digiunare si trova in piena sintonia con i farisei, che lo ascoltano. Si tratta di tre comportamenti che facevano parte del loro stesso insegnamento. Probabilmente si tratta di gesti esemplificativi, a cui si possono di certo aggiungere altre buone azioni.

L’elemosina, ad esempio, non è solo la condivisione del denaro con chi è più povero: si può donare il proprio tempo o la propria competenza. La preghiera non è solo quella personale, ma anche quella liturgica e comunitaria. Il digiuno può essere inteso come rinuncia ad abitudini malsane, oltre che come privazione di qualche pasto o qualche cibo.

Ma la triade elemosina-preghiera-digiuno intende mostrare come la fede permea tutti gli ambiti dell’esistenza: l’elemosina esprime l’attenzione all’altro, la preghiera è il segno del riconoscimento del Dio unico, mentre il digiuno riguarda ciascuno di noi con se stesso. Sono queste le tre dimensioni della vita umana e credente: quella orizzontale (l’altro), quella verticale (Dio) e quella interiore (se stessi). Nessuno può dirsi credente senza tenere nel giusto conto e senza mantenere in un sapiente equilibrio queste tre dimensioni: quella sociale, quella trascendente e quella personale. In tante occasioni la predicazione di Gesù si concentra su uno di questi aspetti: qui, nel testo matteano, il Maestro di Nazaret indica tutte e tre le direttrici, lasciando al singolo credente la fatica di trovare di volta in volta le priorità dell’una senza trascurare le altre due.

Ogni giorno, infatti, anzi più volte al giorno, dobbiamo decidere quando dare la priorità ad esempio al nostro prossimo, ma tenendo sempre sullo sfondo Dio e noi stessi.

Tuttavia, Gesù non si limita a ribadire indicazioni etiche note ai farisei. Non si tratta solo di rammentare che la fede è etica: la sua preoccupazione sembra piuttosto quella di accertarsi che questi comportamenti abbiano una motivazione profonda precisa: “State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro” (Mt 6,1). Forse in queste parole emerge la vera ragione dell’insegnamento di Gesù: c’è una “giustizia umana” che consiste nel fare le cose giuste, ed una “giustizia divina” che consiste nel fare le stesse cose ma per amore. I comportamenti sono gli stessi, ma la motivazione è diversa: il senso del dovere o addirittura l’ipocrisia hanno poco a che vedere con il Padre che Gesù ci ha fatto conoscere. Si può essere giusti, ma non ancora cristiani: ineccepibili, ma senza amore. Come spesso accade, le parole di Gesù graffiano la superficie della nostra vita di credenti e ci interrogano nel profondo.

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