Se usiamo l’espressione “stare da soli” possiamo pensare ad “un’opportunità per generare nuove energie, progetti, sviluppi”.
Se passiamo alla frase “restare da soli” tratteggiamo “uno scenario velato di tristezza con la sensazione che si sia perduto qualcuno di prezioso ai nostri occhi”. Ma “quando nel nostro linguaggio entra la parola ‘solitudine’ disegniamo un quadro malinconico che confina con, o addirittura entra in, una condizione patologica”. Così le grandi solitudini diventano il tema del seminario promosso il 9 marzo a Roma (Sala Vasari – Palazzo della Cancelleria) dal Tavolo sulla salute mentale dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei per capire, prima ancora di fare e intervenire, di cosa si parli. Nato per la relazione, l’essere umano, si trova non poche volte in condizione di solitudine, al punto che la letteratura a più riprese lo descrive come un essere “solo” dalla nascita alla fine. È dunque possibile tracciare linee e criteri per non cadere nella solitudine quando si rimane soli? Oppure quando ci si sente soli pur immersi in una folla che rimane anonima?
Oppure quando non siamo più al centro dell’attenzione di tanti? Questi gli interrogativi che sottendono all’evento. Ad inaugurare i lavori (ore 9-13) saranno i saluti istituzionali di don Massimo Angelelli, direttore Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei, e di mons. Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei. Tra i relatori interverranno fra gli altri gli psichiatri Stefano Vicari, Tonino Cantelmi, Alessandra Laudato, Giovambattista Tura. La lectio magistralis conclusiva è affidata ad Alberto Siracusano.
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