Giovanna Pasqualin Traversa
Basta essere pazienti – Persone rare, diritti universali è il claim della campagna di sensibilizzazione ideata e lanciata da Omar (Osservatorio malattie rare) a Roma, in occasione della Giornata mondiale delle malattie rare (Rare Disease Day). “’Basta essere pazienti’ – spiega Ilaria Ciancaleoni Bartoli, direttore dell’Osservatorio – è la consapevolezza di dover attendere che i tempi della ricerca facciano il loro corso, essere consapevoli delle specifiche difficoltà legate alla propria patologia, ma significa anche non chiudere gli occhi davanti a tutti quei diritti sanciti dalle norme ma difficilmente esigibili in maniera uniforme. Significa non voler più attendere la rimozione delle barriere, materiali o culturali. Questa campagna, e la petizione che verrà condivisa e sottoscritta, è un invito ad un impegno collettivo nel creare una società inclusiva che rispetti e valorizzi l’individualità di ciascuno”.
Alessandro e la battaglia per il diritto allo studio. Dalla scuola dell’infanzia all’università, una continua lotta per ottenere l’assistenza necessaria per poter frequentare la scuola. “Quando mia madre, parecchi anni fa, era andata alla scuola materna per fare l’iscrizione, le dissero che no, che ero troppo malato, che non ci sarei potuto andare a scuola. Mia madre ovviamente non si arrese, e ora eccomi qui, sono all’ultimo anno di giurisprudenza, e tra poco mi laureerò.” Inizia così la storia di Alessandro, riassunta in pochi minuti per la campagna Basta essere pazienti, che nel suo caso tocca il tema fondamentale del diritto allo studio e all’inclusione. Alessandro, affetto fin dalla nascita dalla Sma (atrofia muscolare spinale), ha incontrato diversi ostacoli burocratici e amministrativi per poter esercitare il proprio diritto allo studio. “Ogni anno – racconta – il numero di ore che mi veniva assegnato non era idoneo per poter frequentare, né a scuola né tantomeno all’Università. Puntualmente ogni anno mia mamma doveva iniziare una nuova battaglia per permettermi di stare a scuola come gli altri.
Poi ho iniziato a combattere io. Ci vuole tanta fatica, e la fatica purtroppo può scoraggiare”.
Ma non c’è solo la scuola. “A me piace moltissimo andare ai concerti di musica Metal – prosegue Alessandro – ma comprare il biglietto per me è un’impresa. Io non posso semplicemente comprare un biglietto come gli altri, ma devo essere io ad accertarmi che effettivamente il luogo in cui si svolge il concerto sia adeguato ad ospitare una persona che si muove con una carrozzina”.
Veronica e la malattia nascosta nello zaino “Il mio zainetto per me è fondamentale, perché mi nutre. Senza questo zaino dovrei rimanere a casa, attaccata per 16 ore a un’asta e ad una pompa, e non potrei vivere”. Inizia così la storia di Veronica, 31 anni, raccontata dalla ragazza per la medesima campagna di comunicazione promossa da Omar in occasione della Giornata odierna. Veronica è affetta da pseudo-ostruzione intestinale cronica (Cipo), una malattia rara molto invalidante che colpisce l’apparato gastrointestinale e ne compromette il normale funzionamento. La ragazza non può più né mangiare né bere e deve nutrirsi attraverso l’alimentazione parenterale (nutrizione intravenosa): il suo zainetto contiene il cibo che la tiene in vita. Per questa patologia al momento non esiste una cura.
Quando la patologia è invisibile. “Ho iniziato a star male intorno ai 14 anni e la diagnosi è arrivata circa dieci anni dopo. Il fatto di avere una patologia invisibile spesso mi fa sentire non capita, e questa cosa mi fa molto arrabbiare, perché sembra che io abbia meno diritti e una disabilità meno importante di chi invece ha una patologia visibile”, spiega Veronica. “A volte la gente mi guarda e dice ‘eh, ma stai bene!’, non vedendo tutto quello che c’è dietro: ho dei dolori cronici, per non parlare della socialità, perché la maggior parte delle convenzioni sociali si basano sul cibo”.
Una sfida nella sfida. Vivere con una malattia rara non visibile è una sfida nella sfida, e ci sono diritti, come ad esempio quello del riconoscimento dell’invalidità civile, che spesso non vengono riconosciuti. “Ogni tot di anni l’Inps ti richiama per una visita”, prosegue Veronica. “Pur essendo peggiorata in questi anni, non mi hanno dato l’aggravamento, e oltretutto hanno avuto il coraggio di abbassare di nuovo la percentuale di invalidità, togliendomi anche la 104; sul referto non hanno menzionato la mia patologia, perché questo avrebbe significato dovermi dare il 100%”. Fra i problemi che Veronica deve affrontare c’è anche la burocrazia: “Il piano terapeutico fatto dai miei medici dell’Ospedale Sant’Orsola di Bologna, qui a Roma non è valido e lo devono rifare. Fra l’altro la validità è solo per sei mesi, anche se io purtroppo queste cose le dovrò fare a vita”. Stesso discorso per i farmaci, che vengono forniti in un quantitativo molto ridotto, per cui ogni 15 giorni la giovane deve tornare a riprenderli.
“Per me ‘basta essere pazienti’ significa non dover continuare a lottare ogni giorno contro la burocrazia, contro l’ignoranza della gente e, soprattutto, contro le istituzioni”,
conclude Veronica.
Roberta e il silenzio spezzato. “Vorrei davvero che questa poca conoscenza delle malattie rare, soprattutto al Sud, cambiasse… Basta, basta essere pazienti.” Sono le parole di Roberta, 25 anni, affetta da miastenia gravis e anche lei testimonial della campagna di Omar. La miastenia gravis è una malattia rara autoimmune che colpisce le giunzioni muscolari e può avere conseguenze fortemente invalidanti. Se non trattata adeguatamente può portare a gravi complicazioni, inclusa la compromissione della respirazione, che può mettere a rischio la vita.
“Ho 25 anni – racconta Roberta – e per la mia diagnosi c’è voluto un anno e mezzo. Sapevo che in me qualcosa non andava, ma sono dovuta arrivare a non respirare più, sono dovuta finire in rianimazione per un mese intero prima di capire di cosa si trattasse”. “Un anno e mezzo in cui mi sono chiusa in me stessa. Chiusa in casa, non parlavo più. Perché la miastenia mi ha tolto tutto: la parola, il sorriso. Non riuscivo a parlare, non riuscivo a deglutire, non potevo mangiare. Soprattutto nessuno mi credeva, nemmeno la mia famiglia: tutti pensavano che fossi depressa. Quando mi hanno detto che non ero depressa ma che ero affetta da miastenia gravis – racconta, visibilmente commossa – ho finalmente tirato un sospiro di sollievo”.
Una pagina Instagram. Al ritorno a casa Roberta si è sentita sola: “Avevo bisogno di trovare qualcuno che provasse quello che provavo io. Sentivo la necessità, l’urgenza di urlare, ma anche di aiutare chi come me stava vivendo questo momento così difficile. Così ho aperto una pagina Instagram e ho conosciuto persone meravigliose. Ora siamo in quattro a gestire questa pagina e continuiamo a parlare della nostra vita con la malattia. Non certo per fare vittimismo ma perché
è inammissibile che nel 2024 una patologia come la miastenia gravis non sia conosciuta”.