Riccardo Benotti
“La cultura affettiva contemporanea è segnalata dall’ambivalenza. Abbiamo avuto acquisizioni importanti, ma tante sono state cavalcate strumentalmente. Penso al ruolo della donna nella società, nella famiglia e nella Chiesa. La donna non è più pensata semplicemente come casalinga e madre, ma si è aperta così la strada alla marginalità dell’esperienza della maternità. Che spesso non viene nemmeno presentata nei percorsi educativi o resta un desiderio da rimandare a chissà quando, come un’ipotesi teorica e non una chiamata”. Don Andrea Bozzolo, docente di Teologia dogmatica e rettore magnifico dell’Università pontificia salesiana di Roma, riflette sul tema del convegno che si apre oggi dedicato a “Giovani e sessualità. Sfide, criteri e percorsi educativi” destinato a educatori, religiosi, preti e operatori pastorali. L’iniziativa costituisce il punto di arrivo di un percorso di riflessione interdisciplinare realizzato all’interno dell’Università.
Dagli oltre 400 mila matrimoni religiosi degli anni Settanta, siamo arrivati a circa 80 mila. È anche la conseguenza della crisi dell’affettività?
La precarietà degli affetti comporta la difficoltà a riconoscere che il fascino che l’altra persona esercita su di me è destinato a mettere radici. Se non si comprende che questa radice affonda ultimamente nel mistero di Dio, la pianta resta traballante.
L’indebolimento del matrimonio religioso non ha portato alla vittoria del matrimonio civile ma alla convivenza, ovvero alla precarietà.
Bisogna ascoltare e capire il modo in cui cambia la famiglia. Il lavoro più grande che dobbiamo fare è accompagnare a riscoprire la grammatica degli affetti. Perché gli affetti sono il luogo privilegiato dell’esperienza di Dio.
Quanto ha contribuito la rivoluzione sessuale?
È stato un terremoto le cui ripercussioni sono ancora evidenti. L’esperienza affettiva deve essere gratificante per me, l’altro è uno strumento per la mia realizzazione e per la mia gratificazione. Ecco la china narcisistica degli affetti. La Chiesa ha lavorato tanto sulla teologia del matrimonio, compiendo passi da gigante. Ma ancora troppo poco dal punto di vista educativo.
È necessario un accompagnamento paziente, che conduca a riconoscere nel quotidiano ciò che amore e ciò che è egoismo.
I tempi di un amore non consumistico, per cui due giovani che dopo una settimana si conoscono bruciano le tappe ed è come se fossero marito e moglie.
Tradizionalmente l’educazione sessuale cattolica è stata permeata dall’idea del peccato, tralasciando l’aspetto relazionale.
Non dobbiamo partire dall’approccio normativo, ma dal desiderio dell’intimità. Senza perdere, però, la dimensione etica. Perché il desiderio può essere vorace e, se togliamo la legge, non è vero che sarà il paradiso in terra. I ricorrenti tragici femminicidi mostrano che, se non si riconosce alcuna legge nei rapporti affettivi, il desiderio lasciato a se stesso sbanda. Tutto ciò richiede tanto lavoro culturale.
La riflessione che avete condotto all’interno dell’Università è stata dedicata anche all’identità di genere e all’orientamento sessuale…
La Chiesa deve abitare questi spazi, conoscere, studiare, partecipare al dibattito. Deve farsene carico. Quello che emerge è che di questi temi parliamo di più, c’è una crescente accettazione sociale. Ma non significa che abbiamo raggiunto un livello maggiore di comprensione. Ad esempio, sotto il termine “omosessualità” si radunano una pluralità di vissuti.
C’è ancora molto lavoro da fare per evitare un’etichetta semplificante. E poi è importante prestare attenzione ai risultati delle scienze, ma l’interpretazione dell’umano e della sua complessità non può essere affidata a un’indagine sul Dna.
Meno teoria e più prossimità?
È quello che faceva Gesù: incontrava le persone nella loro singolarità. E non aveva paura di avvicinare chiunque. Educativamente i due poli da evitare sono l’approccio giudicante, che non accoglie la persona, e quello semplificante, che si limita ad osservare i fatti rinunciando all’accompagnamento.
Dal convegno di questi giorni emergerà una proposta formativa per gli educatori?
Se non c’è una ricaduta concreta, avremmo perso una grande occasione. Siamo partiti dall’ascolto della realtà quotidiana, interpellando chi lavora nella scuola, nell’oratorio, della formazione professionale. Il convegno ha toccato un nervo vivo della quotidianità educativa. Non vogliamo dare risposte impulsive e superficiali, ma l’interesse ultimo è pratico, educativo e pastorale. Il corso di formazione per educatori è lo strumento per raggiungere la concretezza del vissuto giovanile.