STE SEGNÒRE !
-Segnò, ‘mpristema ‘n pù ‘ssu callarìtte
facétte chèlla matte de Peppìne,
quanne chèlle passì pòrbie vecine
-‘n pòzze culà, lu mî jè ttroppe strìtte !
Te pù penzà lu ride che facìtte:
me velitte a sfelà, Marietta mîne!
Se revôtètte còmma ‘n’accemìne,
A-cce n’ha dìtte! Ma se cce n ha dìtte
«Siete villane,nen capite gnente,»
«precchè così si aùse alle ccettà!»
‘Nzòmme, facètte radunà le ggènte.
-Segnò-decìtte e zitte,’ ‘n t’ancagnà’!
Se ‘ssu cappìlle te sta mmalamènte
e se scì bbrùtte, che verrisce fa’?
(Bice Piacentini Rinaldi)
Di Pietro Pompei
Tra il secolo XIX e XX nei nostri paesi la popolazione era divisa oltre al sesso anche in base al censo e ai titoli nobiliari. Da una parte i signori e gli uomini, dall’altra le signore e le donne. Il titolo di “sor o di sora”, distinguevano i primi e le prime. Più frequente questa distinzione nei paesi interni, meno sulla costa, specie a San Benedetto, dove poche erano le famiglie nobiliari.
Qui il titolo di “sora” fu esteso alle forestiere delle grandi città per quella deferenza che si aveva per chi portava, nella stagione estiva, un vantaggio economico. Le signore si vedevano in giro solo in rare occasioni: “Vestivano- come scrive il Brunetti- in tutt’altro modo dalle donne: abiti lunghi a tre o quattro piani, senza piedi e senza scarpe ( non si vedevano strisciando le gonne a terra) con cappellini o cappelloni straguarniti in testa, della quale avevano solo la parte , dipinta di bianco e rosso, dagli occhi al mento, dietro una retina così fina che ci si potevano acchiappare i moscerini e che non abbiamo mai capito a cosa servisse”. Interessanti sull’argomento moda sono alcuni sonetti di Bice Piacentini. Nel proporli in una raccolta dal titolo “La donna sambenedettese, nella realtà sociale del territorio” Tito Pasqualetti così li chiosa: “ Simpatico e caustico commento delle popolane sambenedettesi al vedere per le vie centrali della città e sul lungomare una passerella fuori programma; sfilano donne cittadine, vestite all’ultima moda, e chi quei vestiti e quei cappellini non potrà mai comprare si diverte a canzonare e a ridere. Altro mondo altra società”. Con la gente comune, specie della campagna, queste signore, non parlavano direttamente, ma attraverso la serva.
Prima della donna-donna c’erano le ragazze ( le frechéne in sambenedettese, frechìne a Ripatransone, con una sfumatura di é che va man mano illanguidendo, commenta Francesco Palestini). Esse erano tenute nei vari ambienti, per quanto possibile, separate dai maschi. Imparavano ben presto a cucinare e a far la sfoglia e poi anche a ricamare ad aiutare le madri per le faccende di casa. Di sesso manco a pensarlo, tuttavia è da tener presente che mentre la femminilità era sacra, tabù, per l’altro sesso, assai meno, per le femmine, quello che era peri maschi. Ciò va ricercato nel fatto che le ragazzine dovevano accudire spesso i propri fratellini. Poi abbiamo le fandèlle o come si può leggere nei “Nuovi Bozzetti poetici” di Carlo Neroni “ le ffendella”. E’ la giovinezza che non teme la povertà, anzi, come le favole di cui ci siamo nutriti, spesso si fa vezzo nella gara dei sentimenti. E’ il momento degli sguardi furtivi, degli ammiccamenti, delle serenate. E per la ragazza da marito anche la famiglia era disposta a qualche spesa in più.
Le donne-donne facevano veramente una vita impossibile.
Si alzavano “tra lume e scuro” e subito giù in cucina ad accendere i fornelli, quelli a carbone e mettere a bollire il caffè d’orzo. Quando poi c’era da fare il pane, allora la giornata diventava veramente pesante. “Ppicche l’acque Merì” era la sveglia che il fornaio dava a chi si era prenotata ( così come viene riportato da Alfredo Rossi in una rubrica sul mensile Cupra e la Val Menocchia del 1987). Ma già la massa era lievitata durante la notte nella madia ben chiusa dopo avervi alitato sopra quasi ad animarla. Sulla tavola che il fornaio forniva, le pagnotte venivano allineate e su ognuna incisa una croce. Intorno al pane c’era una venerazione che andava dal non mettere la pagnotta mai rovesciata, a non farlo mai cadere, oppure a raccoglierlo e baciarlo. Il pane da benedizione si poteva mutare nello spreco, in maledizione per quella casa. Tornando alla donna possiamo dire che tutto quanto riguardava la vita familiare gravava su di lei, compreso lo straordinario da accudire agli animali domestici, così frequenti nelle famiglie, specie nei paesi interni;(e c’era anche il somaro!). E bisognava preparare il pranzo e la cena e magari andare a fare l’erba per i conigli, da caricarsi sistematicamente sulla testa. Era il mezzo di trasporto fondamentale. Si attorcigliava la sparra, si arrotolava e si metteva in testa, a forma di ciambella, per attutire l’impatto e su la brocca, l’orce, il canestro in un equilibrio da circo. C’erano poi i giorni del bucato e bisognava prendere posto per tempo al lavatoio, altrimenti i trucche, ( i trogoli) li trovavi occupati. Alcune donne si prestavano a lavare i panni dei signori per racimolare qualche soldo in più per la famiglia. Delle lavandaie ne parla diffusamente Giulio Lambertelli nel libro: “All’ombra del campanile” .
Un discorso a parte va fatto per le donne di campagna. I contadini difficilmente andavano in paese, i più vicini solo per la S.Messa domenicale. Si sentivano estranei, ma senza rancore, senza voglia di rivincita. La loro era una condizione millenaria ormai assorbita come qualcosa di naturale, di biologico.
Le contadine arrivavano a piedi nudi, con le scarpe in mano, per non consumarle fino all’ingresso del paese. Venivano spesso sbeffeggiate. Il Lambertelli nel libro su Acquaviva Picena, riferendosi a Ripatransone scrive che spesso i contadini venivano, dopo la messa, cacciati dal paese con sassaiole che perdurarono fino al 1930. Le donne del paese avevano da dire su un particolare odore che le contadine avevano addosso e lo attribuivano alla bestie oppure all’acqua stagnante e densa delle fonti in cui lavavano i panni. Ne parla anche Rolando Perazzoli nel libro “ Il Monterone”. Desidero aggiungere come questo isolarsi dei paesi dell’interno nei confronti degli abitanti delle campagne, ha favorito l’inserimento del contadino nella vita dei paesi costieri, con quell’economia basata sul “baratto” che poi avrebbe portato, necessariamente, a rapporti sempre più stretti anche sul piano del lavoro. In fondo anche nei paesi costieri c’era un tentativo di emarginazione tra quelli che vivevano nella Rocca, i Signori, e quelli che si erano costruite basse dimore sui “relitti di mare”, j Pajarà. E su queste sofferte esperienze di pari passo maturarono forme di vita, che ebbero , nell’uno e nell’altro ambiente, protagoniste le donne. Le possiamo ritrovare nei libri di Isa Tassi e nella e bella pubblicazione “ La rete e il tempo” di Benedetta Trevisani, per quanto riguarda la donna di mare e nel simpatico libricino di Cesare Angeletti sulla “Vergara”, definita “donna manager” di cento anni fa per la donna di campagna.
Si è spesso parlato di una certa autonomia femminile nell’ambito della vita familiare sambenedettese, ma non sempre se n’è colto il significato e il momento. L’importanza della donna si può desumere dal ruolo che ella esercitava. C’era una netta distinzione tra le donne sposate e con molti figli, alla quale si concedeva piena libertà nella conduzione della vita familiare e quelle non sposate che dovevano attenersi ad una vita riservata e virtuosa. Le ragazze da marito venivano scelte fra quelle virtuose che frequentavano la chiesa e il laboratorio tenuto dalle suore, ma nel contempo non disdegnavano i lavori domestici. Le troppo virtuose e che trascorrevano molto tempo in chiesa ( le santarelle) normalmente rimanevano zitelle, così pure quelle che usavano un atteggiamento troppo amicale con tutti ( le senza vergugne). La madre di famiglia era venerata dai figli e rispettata, anche se con modi rudi, dal marito. Era lei la manager della famiglia e non disdegnava, qualora ce ne fosse stato bisogno, di unirsi nei lavori pesanti dell’uomo. Molte, anche quando erano incinte, si imbarcavano sulle lancette, per sostituire i marinai o si univano nel ritirare la sciabica.
Per quanto riguarda la “Vergara” c’è da dire subito che essa era riconosciuta anche giuridicamente.
Nel libro dal titolo: “Consuetudini nelle divisioni delle famiglie coloniche in provincia di Ascoli Piceno” del dott. Nicola Tozzi-Condivi del 1942, si legge: “La famiglia colonica, vivente nelle nostre campagne, è guidata da un capo- Vergaro- ecc. A Vergaro si sceglie tra i componenti la famiglia il più intelligente o colui che ha maggiore autorità. La moglie del Vergaro –la Vergara- ha la responsabilità dell’andamento della casa e dell’allevamento domestico del pollame e dei suini”. Diventava “Vergara” chi aveva saputo con il suo comportamento accentrare il rispetto e la considerazione dell’intero gruppo familiare. A lei si rivolgevano tutti: i più giovani per avere aiuto, gli uomini maturi per ricevere consigli e conforto. Preparata dalla mamma e dalla nonna, da qualche zia zitella, era pronta ad essere esperta: abile cuoca, sarta, tessitrice, ricamatrice, infermiera e, alla necessità, severa correttrice d’ogni deviazione dalla retta via. Sbrigare le faccende domestiche, cucinare, aiutare nei campi e programmare le nascite e la crescita degli animali da cortile erano i suoi compiti, oltre quello di essere brava moglie ed ottima madre. Scrive Angeletti: “ La donna da me incontrata è sposata. Lo si capisce dal fatto che ha al collo una collana di corallo, dono della mamma al compimento del diciottesimo anno di età), ed una collana d’oro, dono della suocera per il matrimonio. Ha agli orecchi due splendidi pennenti, ricchi orecchini di ori e coralli che terminano con due o tre gocce. Quando non porta pesi il suo capo è coperto da un leggero fazzoletto e sulle spalle ha un ampio scialle guarnito da lunghe frange, a colori molto vivaci. La camicia è bianca e al collo e ai polsi ha dei merletti molto belli e tutti ricamati a mano da lei stessa o provenienti dal corredo della mamma e della nonna. Un bustino, con stringhe sul dietro, evidenzia il suo petto prosperoso e l’ampio guarnello , lunga gonna a righe tessuta al telaio a casa, copre pudicamente alcune sottogonne ed i mutandoni che, chiusi da fiocchetti al polpaccio, si incontrano con le calze bianche. A proteggere il guarnello c’era una lunga pannella che era di grande utilità in varie occasioni e che era rigorosamente bianca in cucina e colorata negli altri lavori. La pannella serviva a creare, prendendone i due angoli inferiori con la mano sinistra, un utile porta-oggetti nel quale deporre, per trasportarli, uova,ortaggi,pezzi di legna ecc. La parte inferiore, al rovescio, era usata per asciugarsi le mani. Il bordo inferiore, ripiegato più volte, serviva a sostituire le presine per non scottarsi le mani nel togliere le pentole o il caldaio dal fuoco”.
La collana di corallo era un ornamento molto diffuso a tempo delle nostre nonne e madri. A S.Benedetto, scrive Ernesto Spina:” Quando la sarta aveva terminato l’acconciatura dell’abito nuziale alla sposa, la suocera le metteva al collo la collana di corallo, dono dello sposo, dicendole :”Te j puzza ‘udè come San Gniseppe” (cioè in pace come S.Giuseppe godette della presenza di Gesù e Maria). Le cognate a loro volta, le mettevano gli orecchini.
Vorrei terminare questa mia, per molti versi, lacunosa esposizione sulle nostre “donne” di una volta, in occasione della festa dell’8 marzo con un Grazie con i tanti che il Papa San Giovanni Paolo II nel 1995 inviò con lettera pubblica a tutte le donne e qui ripropongo:
Dalla lettera di S,Giovanni Paolo II:
“Vorrei ora rivolgermi direttamente ad ogni donna, per riflettere con lei sui problemi e le prospettive della condizione femminile nel nostro tempo, soffermandomi in particolare sul tema essenziale della dignità e dei diritti delle donne, considerati alla luce della Parola di Dio.
Il punto di partenza di questo ideale dialogo non può che essere il grazie. La Chiesa – scrivevo nella Lettera apostolica Mulieris dignitatem – « desidera ringraziare la santissima Trinità per il “mistero della donna”, e, per ogni donna, per ciò che costituisce l’eterna misura della sua dignità femminile, per le “grandi opere di Dio” che nella storia delle generazioni umane si sono compiute in lei e per mezzo di lei » (n. 31).
Il grazie al Signore per il suo disegno sulla vocazione e la missione delle donna nel mondo, diventa anche un concreto e diretto grazie alle donne, a ciascuna donna, per ciò che essa rappresenta nella vita dell’umanità.
Grazie a te, donna-madre, che ti fai grembo dell’essere umano nella gioia e nel travaglio di un’esperienza unica, che ti rende sorriso di Dio per il bimbo che viene alla luce, ti fa guida dei suoi primi passi, sostegno della sua crescita, punto di riferimento nel successivo cammino della vita.
Grazie a te, donna-sposa, che unisci irrevocabilmente il tuo destino a quello di un uomo, in un rapporto di reciproco dono, a servizio della comunione e della vita.
Grazie a te, donna-figlia e donna-sorella, che porti nel nucleo familiare e poi nel complesso della vita sociale le ricchezze della tua sensibilità, della tua intuizione, della tua generosità e della tua costanza.
Grazie a te, donna-lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, per l’indispensabile contributo che dai all’elaborazione di una cultura capace di coniugare ragione e sentimento, ad una concezione della vita sempre aperta al senso del « mistero », alla edificazione di strutture economiche e politiche più ricche di umanità.
Grazie a te, donna-consacrata, che sull’esempio della più grande delle donne, la Madre di Cristo, Verbo incarnato, ti apri con docilità e fedeltà all’amore di Dio, aiutando la Chiesa e l’intera umanità a vivere nei confronti di Dio una risposta « sponsale », che esprime meravigliosamente la comunione che Egli vuole stabilire con la sua creatura.
Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla piena verità dei rapporti umani.
Ma il grazie non basta, lo so. Siamo purtroppo eredi di una storia di enormi condizionamenti che, in tutti i tempi e in ogni latitudine, hanno reso difficile il cammino della donna, misconosciuta nella sua dignità, travisata nelle sue prerogative, non di rado emarginata e persino ridotta in servitù. Ciò le ha impedito di essere fino in fondo se stessa, e ha impoverito l’intera umanità di autentiche ricchezze spirituali”.