DIOCESI – Pubblichiamo le parole pronunciate dal vescovo Carlo Bresciani in occasione del Venerdì Santo.
“Abbiamo appena ascoltato la lettura della passione di nostro Signore che mette al centro il mistero della morte di Gesù, di colui che si era proclamato, ed è, il Figlio di Dio. In lui il dramma e la sofferenza di ogni essere umano in qualche modo si rispecchiano, ma in Lui possono trovare un senso che va al di là dell’immediato apparente non senso del dolore e della morte.
Bisogna allora cercare di capire il senso del Cristo sofferente. Quale il senso del soffrire di Cristo? Ma strettamente collegato a questa domanda ce n’è un’altra: quale è (se c’è) il senso del nostro soffrire? Che ha a che fare la croce di Cristo con la mia, la nostra sofferenza?
Troppo sbrigativo mi sembra dire che è perché ci sono stati scribi e farisei malvagi (tutto sommato analoghi ai malvagi di oggi) e quindi riversare su di loro la colpa. Questo è vero certo, ma è solo una parte della verità, quella più facile e che non aiuta ad affrontare pienamente il problema della nostra vita.
Troppo facile, per quanto assolutamente vero, dire che Gesù è morto per i nostri peccati e per i peccati dell’umanità: tutto questo è tutt’altro che superficiale. Ma noi tutti siamo interessati alla realizzazione della nostra vita e lo scontro con il dolore e la morte sembra impedirla in modo drammatico.
La morte di Cristo ha a che fare con il nostro peccato, certamente, ma perché Cristo per realizzare pienamente la sua vita ha dovuto affrontare tutto ciò? Perché la sua sofferenza ha a che fare con il compimento della sua vita e in qualche modo anche con il compimento della nostra vita? Ammettiamolo, sono domande molto difficili, ma credo che siano dentro ciascuno di noi.
Capire il senso della sofferenza di Cristo richiede entrare a capire il suo amore, capire che cosa ha significato per lui amare la verità e il bene, amare se stesso, amare il Padre e amare noi. Il fatto è che la realizzazione della vita sta nella fedeltà a ciò che si ama e nella verità di ciò che si ama. Gesù amava il Padre e gli è rimasto fedele anche quando altri non capivano questa fedeltà: tradire l’amore del Padre averebbe significato tradire se stesso. Non poteva tradire l’amore del Padre, solo perché altri non lo capivano. Che amore sarebbe stato il suo? Lui, che si è proclamato Dio, avrebbe potuto tradire l’Amore? Come credere in chi tradisce l’amore? Può egli essere Dio?
Gesù aveva qualcosa di molto importante da dare e da insegnare agli uomini, a tutti noi: insegnarci ad amare. Non si è tirato indietro anche quando altri hanno cercato di impedirglielo. È rimasto fedele anche di fronte alla morte e ha mostrato in modo sommo il suo amore quando dall’alto della croce ha invocato il perdono per chi lo aveva condannato a morte. Potremmo confidare in un amore di Dio che non sa perdonarci?
La sofferenza di Cristo scaturisce dal suo essere fedele a Dio Padre e all’amore per lui. Dopo aver parlato dell’amore, vi è rimasto fedele: non ci ha tradito. Non ha usato solo belle parole, le ha messe in pratica. Per questo è un uomo genuino, autentico dalla punta dei capelli a quella dei piedi. È questa vita genuina di Cristo che l’ha portato alla sofferenza e alla morte in croce. Egli non poteva non accettarla se non a prezzo del rinunciare a se stesso. Quella sofferenza non è stata una perdita, ma salvare se stesso nella propria identità e personalità. Per questo ‘doveva’ soffrire per essere e rimanere se stesso: un Figlio che ama il Padre. Essendo Figlio, ha vissuto da figlio e non ha rinunciato a questa sua identità, benché altri l’avessero voluto e abbiano tentato tutto per fargliela abbandonare. Il Padre lo conferma nella sua identità di Figlio: questa è la resurrezione.
Non porta mai nulla di buono la separazione dell’amore dalla fedeltà, perché la fedeltà costa: per questo in Dio e in Gesù non c’è mai questa separazione. Dio è il Dio fedele e il Figlio vive la fedeltà al Padre. La nostra cultura, invece, opera questa separazione: su questa strada non diminuisce la sofferenza, tutt’altro.
Il passaggio dal Dio onnipotente, che risolve magicamente tutti i problemi, al Dio che si fa compagno di vita e di sofferenze dell’uomo, vivendo in se stesso l’impotenza di un amore che, se non accolto, non può nulla, non è immediatamente facile da comprendere. Richiede esattamente una conversione al Vangelo. Richiede il passaggio da una religione troppo generica, tipo new age, alla vita evangelica. Richiede il passaggio dal narcisismo onnipotente del bambino alla realtà di una vita fatta di incontri e scontri all’interno dei quali non possiamo e non dobbiamo perdere noi stessi in un illusorio tentativo di salvare la nostra vita. Le ferite subite dal nostro narcisismo segnano il cammino della vita e ci portano a prendere sempre più coscienza della nostra povertà e dei nostri limiti ai quali c’è solo un rimedio: imparare ad amare come Dio ci ama in Gesù“.
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