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Ragionare sulla povertà

Stefano De Martis

Di fronte al problema drammatico della povertà – rappresentato dall’Istituto nazionale di statistica con la durezza dei numeri – la politica dovrebbe provare almeno a rinunciare agli slogan e ai pregiudizi ideologici. E’ ormai storia il fatidico annuncio di Luigi Di Maio, allora capo del M5S, che il 28 settembre del 2018 dichiarava nientedimeno che l’abolizione della povertà. Oggi la premier ha buon gioco ad affermare che la povertà “non si abolisce per decreto”. Chi può darle torto? Ma intanto (stime preliminari Istat) nel 2023 le famiglie in povertà assoluta sono arrivate all’8,5%. Erano l’8,3% nel 2022. Si fa presto a dire che il dato è sostanzialmente stabile. Come se ci si potesse abituare all’idea che oltre 2 milioni 234 mila famiglie, per un totale di circa 5 milioni 752 mila persone, non riescano ad avere i mezzi per uno standard di vita minimamente accettabile.
Evitare l’enfasi sulle virtù taumaturgiche della politica nei confronti della povertà non può diventare un alibi. Non è vero che sia sempre tutto uguale e che non siano possibili inversioni di tendenza. L’Istat, ricostruendo l’andamento del fenomeno negli ultimi dieci anni, rileva che nel 2014 la povertà familiare era al 6,2%, era rimasta stabile nei due anni successivi ed era invece cresciuta in maniera significativa nel 2017, toccando quota 7,2%. Il dato – scrive l’Istituto di statistica – “si stabilizza di nuovo nel 2018, per poi decrescere nel 2019 al 6,7%, in concomitanza con l’introduzione del Reddito di cittadinanza di cui, a partire dal secondo trimestre, hanno beneficiato circa un milione di famiglie in difficoltà”. Dal 2020 la corsa degli indicatori riparte sotto la spinta della pandemia e, successivamente, dell’inflazione, fino alla situazione attuale, tenendo anche conto che dal settembre 2023 il Reddito di cittadinanza è stato drasticamente limitato e, dall’inizio di quest’anno, sostituito dall’Assegno d’inclusione.
I numeri parlano chiaro: nel 2019 l’andamento del fenomeno ha registrato un cambio di segno e l’indicatore della povertà familiare ha evidenziato un livello inferiore all’attuale di quasi due punti percentuali. E questo grazie al Reddito di cittadinanza. In prospettiva varrebbe la pena di recuperare i due elementi che – nonostante i non marginali difetti di costruzione e gli abusi che pure ci sono stati – hanno consentito a quella misura di essere in qualche modo efficace: il suo carattere universale (da rendere semmai effettivo anche rispetto ai limiti originari) e la portata dell’investimento finanziario.
Dalle recenti stime dell’Istat, peraltro, emerge l’ennesima conferma del fatto che contro la povertà sono necessari interventi mirati e non basta confidare in un generico e per molti versi ambiguo aumento dell’occupazione, stante il fenomeno sempre più strutturale del cosiddetto “lavoro povero”. La povertà assoluta tra le famiglie con persona di riferimento occupata è salita dal 7,7% del 2022 all’8,2%, “il picco dell’intera serie storica dal 2014”, sottolinea l’Istituto di statistica, che segnala inoltre un “peggioramento significativo” (dalll’8,3% al 9,1%) per le famiglie in cui la persona di riferimento è un lavoratore dipendente. Sarebbe utile capire se quest’ultimo dato possa essere interpretato anche alla luce delle scelte di politica fiscale.

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