Di Roberta Pumpo
Nel panorama geopolitico attuale, dominato da molteplici conflitti su scala globale, si staglia una netta distinzione tra quelli che catturano l’attenzione dei media e quelli che sprofondano nell’oblio, relegati al rango di “guerre di serie B”. Ucraina e Medio Oriente monopolizzano le cronache di giornali e telegiornali da mesi, mentre scivolano nell’oblio violenze efferate che dilaniano da 13 anni la Siria e da un anno esatto il Sudan. Le vittime innocenti, le devastazioni, la povertà, a prescindere dal teatro di guerra, restano tali. Per questo Caritas italiana intende sensibilizzare su questi conflitti dimenticati. “La crisi in Sudan a un anno dall’inizio del conflitto” il tema del webinar svoltosi questa mattina, 16 aprile, promosso dall’organismo pastorale nazionale per la promozione della carità, per fare il punto su “una delle catastrofi umanitarie più rilevanti del pianeta”, ha detto Fabrizio Cavalletti, responsabile dell’Ufficio Africa di Caritas italiana. In dodici mesi di guerra ha ricordato che sono oltre 8 milioni gli sfollati interni, 2 milioni quelli diretti nei paesi confinanti, molti dei quali già piegati da crisi pregresse, e migliaia le vittime accertate. “L’opinione pubblica spesso fatica ad arrivare a conoscere certe realtà e fatica anche a funzionare da attori di pressione dal basso verso governi anche europei”. È quindi necessario “uno sforzo di attenzione, di sensibilità, uno sforzo anche politico e diplomatico che per il momento è nettamente al di sotto di quello che la situazione richiede” ha aggiunto Federico Mazzarella, operatore di Caritas italiana. Bruna Sironi, giornalista di Nigrizia esperta di Sudan e Corno d’Africa, ha fatto il punto sul conflitto che ha trasformato il Sudan in un Paese frammentato in tre zone sottomesse da attori differenti: l’esercito regolare che controlla gran parte del corso del Nilo, la costa del Mar Rosso con Port Sudan e alcuni stati del Sud-Est, le forze di intervento rapido che dominano alcuni stati del Sud-Ovest e gran parte del Darfur e infine le forze ribelli sparse in diverse aree del Paese, legate a interessi locali e spesso con identificazioni etniche transfrontaliere. “Khartoum è ormai una città fantasma – ha affermato -. La città è quasi completamente controllata dalle forze di intervento rapido. Anche il Darfur è quasi totalmente sottomesso dalle forze di intervento rapido che hanno perpetrato violenze inaudite come a El Genina, dove si configura un vero e proprio genocidio contro il gruppo etnico dei Masalit”. In collegamento da Nairobi, Sironi ha sottolineato l’impatto devastante della guerra sulle infrastrutture portanti del Paese che sono state “distrutte, l’80% del servizio sanitario è fuori uso, mancano i medicinali e le scuole sono chiuse da un anno”. Condizioni drammatiche che, unite alla mancanza di prospettive per il futuro, fanno temere “una vera e propria catastrofe generazionale”.
Naturalmente nell’ultimo anno è precipitato anche il Pil. Proprio parlando dell’aspetto economico e di come a cascata gli effetti si ripercuotono sulla popolazione, suor Elena Balatti, direttrice di Caritas Malakal (Sud Sudan), ha spiegato che quando si è iniziato a parlare dei combattimenti, in Sud Sudan fonte di preoccupazione è stato anche l’oleodotto. Quell’area geografica, infatti, “dipende per il 90% dal petrolio”. Per questioni storiche l’oleodotto dal Sud Sudan passa attraverso il Sudan e il greggio viene esportato dal porto. Per quasi un anno i tecnici non hanno potuto fare la regolare manutenzione e quindi “da quasi due settimane il petrolio è bloccato, chi lavorava per le compagnie petrolifere è stato licenziato, il cambio della valuta locale rispetto al dollaro sta aumentando in maniera esorbitante.
La situazione è grave e le persone che arrivano, che in molti casi hanno perso tutto, trovano anche una difficilissima situazione economica e una popolazione già provata”. In questo scenario devastante una luce di speranza è offerta dalla forza delle donne, nello specifico delle rifugiate di Métché protagoniste di un progetto di orti comunitari. Lo ha raccontato fratel Fabio Mussi missionario del Pime, economo del Vicariato apostolico di Mongo (Chad). “Avevamo notato uno strano via vai verso le zone vicine al campo profughi – ha detto -. Le abbiamo seguite e scoperto che avevano iniziato a coltivare ortaggi nelle zone pianeggianti attorno al campo. Sono orti grandi un quarto di ettaro dove coltivano di tutto”. Una iniziativa spontanea “provvidenziale” per il missionario dato che il programma alimentare mondiale “non può sostenere l’alimentazione quotidiana per tutte queste persone”.