Lu dialette nnùstre jè curiose bè;
non totte lu sa parlà,
e se te mette a deserà
te ve lu male, pandeche, te ve!

E pe screvùlo? Zette! Jè robbe che
nge se po’ crede,nge se po’ manghe pensà:
tra la « j » e la « e » che te pù reccapà?
La « J » nen po’ esse,e nen manghe la « e ».

Ci velarì na lettere de piò,
na lettere che stesse tra cheschie do,
né «j», né «u», né «e», né «a», né «o»!

Certe! Perché, se to screve « zziache »,
lu da legge be’, sennò
te senti dè: “ Ma che ti sci mbriacate!

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – A ripercorrere la storia della nostra città, troviamo diversi periodi nei quali, a causa di guerre ed epidemie, c’è stato un ricambio forzoso della popolazione con conseguente cambiamento dal punto di vista sociale, culturale e fisico. Certamente la maggiore trasformazione si è avuta negli anni dopo l’ultima grande guerra fino ai giorni nostri, quando le popolazioni dei paesi interni si sono riversate verso la costa triplicando, in meno di mezzo secolo, il numero degli abitanti della nostra città. A cercare il sambenedettese autentico oggi si fa veramente fatica, perché anche il più vecchio marinaio ha subito mutamenti nel confronto con un linguaggio diverso, con la sua differente intonazione, e con gli usi e costumi portati dagli immigrati.
Basta tornare vari decenni indietro per accorgerci di come le differenze sia nel parlare sia nel vestire e nei diversi modi di rapportarsi allora fossero ben distinti ed evidenziati. Le persone erano etichettate secondo il paese o la città di provenienza e di ciascuna se ne metteva in risalto le peculiarità. C’era l’Acquavevane (Acquaviva Picena ), la Repane o lu Repà (Ripatransone), la o lu Bulegnese (Bologna), la o lu Milanese (Milano) e cosi via , e a lungo andare queste espressioni divennero dei soprannomi.
Il primo a subire una trasformazione a causa di questa intrusione fu il dialetto, lavorando specialmente sulle vocali con accentazione diversa. Le donne che venivano dalle grandi città, forse per quel atteggiamento reverenziale che si aveva verso le persone che parlavano italiano, erano indistintamente chiamate con il termine la segnòre. Esse influenzarono moltissimo la moda femminile, dai capelli, passando da lu tepò alla permanente, al modo di vestire alleggerendo le molteplici sottane fino al calcagno e togliendo il fazzolettone dalla testa. Questo in particolare perse di importanza da quando non serviva più, a mo’ di ciambella sulla testa, per il trasporto dei canestri e dell’ orce.
Fino ai primi anni del dopoguerra, “ il marinaio- scrive il Liburdi- era lo sposo ideale della “fantella sambenedettese”, ma ben presto l’esigenza di essere al passo con i tempi , indusse a pensare per i propri figli,attraverso l’istruzione, un futuro più ambizioso.
Nell’ambito dello stesso nucleo familiare, a causa dei matrimoni misti, si cominciarono ad avvertire, tra i vari componenti, una differenziazione delle caratteristiche fisiche e un diverso modo di comportarsi. L’aspetto fisico dell’uomo dalla corporatura solida e compressa, modellata dalle intemperie di un lavoro sempre all’aperto, si andava ingentilendo ed assumendo una statura più alta e longilinea. Man mano è andato scomparendo l’uomo gibboso, incurvato nel modellare lo spago in un andirivieni giornaliero sempre uguale.
I mestieri allora dividevano in caste e si notava una differenza sociale quasi ereditaria. E fa piacere incontrare spesso certi ragazzi di allora, costretti a girare la ruota e con un futuro segnato
dalla miseria in cui si dibattevano, in posti di responsabilità e di prestigio.
Si intrecciarono anche le tradizioni, usi e costumi e perfino la cucina si arricchì di nuove ricette. Lo scambio delle esperienze se da un lato arricchì i sapori, dall’altra perse in genuinità e originalità.

 

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